di Stefano Santos
La questione sui cacciabombardieri F-35 non è frutto di un contingente dibattito politico, che si può risolvere in un aut-aut sull’acquisto o meno da parte dell’Italia di una partita di caccia, ordinati e confezionati su misura, come un abito dal sarto. E’ una questione che affonda le proprie radici in molto più tempo di quanto ci si aspetti, e perciò necessita di un adeguata analisi.
JOINT STRIKE FIGHTER: LA NASCITA. La necessità di mantenere costi di sviluppo, di produzione e manutenzioni bassi venne tradotta, durante l’amministrazione Clinton, in una razionalizzazione e unificazione dei programmi nel Joint Advanced Strike Technology (JAST), che doveva portare alla produzione di una singola famiglia di aerei che soddisfacessero le esigenze dell’Aeronautica Militare statunitense (USAF), della US Navy e del corpo dei Marines. Il programma mutò il suo nome nel 1996, diventando Joint Strike Fighter (JSF). Iniziò contemporaneamente la competizione tra due aziende costruttrici di aerei: la Boeing, che presentò il modello x-32 e la Lockheed Martin, con il modello x-35 che poi sarebbe risultato vincitore, diventando così il famigerato F-35 Lightning II.
DALL’AMERICA ALL’ITALIA. La cooperazione internazionale riguarda la partecipazione economica nelle due Fasi di sviluppo del progetto: lo studio e lo sviluppo del progetto (Fase 1) e la produzione dello stesso (Fase 2). La partecipazione economica è stata graduata in 3 livelli di partnership: al livello 1 il Regno Unito, con un peso del 10% nella prima fase; al livello 2 l’Italia e l’Olanda, che hanno stanziato rispettivamente 1 miliardo e 800 milioni di dollari, con un peso del 5% circa; all’ultimo livello, con un peso dell’1%, Canada, Turchia, Australia, Norvegia e Danimarca. A un quarto livello, che prevede unicamente l’acquisizione di informazioni privilegiate, hanno aderito Israele e Giappone.
Una prima adesione italiana al progetto si ebbe nel 1996, durante il primo Governo Prodi, sotto il ministero di Beniamino Andreatta, confermata con un Memorandum of Agreement nel successivo Governo D’Alema, nel 1998. Nel 2002 il Governo Berlusconi elaborò un programma di sviluppo, culminato con l’adesione alla seconda fase, quella produttiva, nel 2007 con il secondo governo Prodi e che impegna il nostro paese fino al 2047. Del 2012 è invece la notizia che il ministro della difesa Giampaolo di Paola – già presidente del comitato militare Nato – nell’ambito della generale revisione delle spese militari, ridusse l’ordine degli aerei dai 131 preventivati a 90.
L’esigenza, affermata dall’Aeronautica Militare nel suo portale, è quella di sostituire la flotta di aerei di attualmente in servizio nel forze armate. In particolare, per la Marina, l’AV-8B Harrier, frutto di una collaborazione con Stati Uniti, Regno Unito e Spagna a partire dai tardi anni Ottanta, che ha servito in Somalia, Kosovo e Afghanistan. Per l’Aeronautica, l’AMX italo-brasiliano e il Tornado, con Germania e Regno Unito, con il primo che ha trovato limitato impiego nelle guerre balcaniche e in Libia, e il secondo dispiegato nella Guerra del Golfo, in Kosovo e in Libia. La caratteristica del decollo verticale, prevista in un modello dell’aereo, inoltre si adatterebbe a portaerei di limitata dimensione quali i Garibaldi e i Cavour.
SPESE. I problemi emergono con chiarezza ne “La Spesa Militare in Italia – Rapporto 2013” di Fulvio Nibali, dell’Archivio Disarmo, che sintetizza accuratamente la spesa militare italiana avendo come fonti principali la Nota Aggiuntiva allo stato di previsione per la Difesa per l’anno 2012 e il Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa per il triennio 2013-2015, curati entrambi dal Ministro Di Paola. Il livello di avanzamento del progetto è stato criticato da più parti, prima di tutto per i ritardi nello sviluppo e i difetti di progettazione, acuiti dagli esiti delle simulazioni che vedono l’F-35 in ritardo rispetto ai suoi competitori russi e cinese e dai problemi in fase di decollo e atterraggio. Inoltre, il problema che interessa maggiormente l’estabilishment statunitense è la esponenziale crescita dei costi del singolo velivolo, stimata a 127 milioni di dollari (laddove la stessa Lockheed valuta 170 milioni di dollari). Anche in Italia si è posto il problema: la stessa diminuzione dei velivoli ha il paradosso del costo maggiore rispetto ai 131 preventivati. Il rapporto confuta anche una delle argomentazione dei favorevoli al progetto, cioè l’iniezione di 10000 posti di lavoro che potrebbe avere ripercussioni positive nell’economia nazionale. Infatti, l’apporto, confermato da fonti sindacali, sarebbe solo di 1500 nuovi posti di lavoro, un decimo della stima.
In più, il contratto non è stato ancora firmato e non vi sarebbero penali nel caso l’Italia si tirasse indietro. In generale, viene evidenziata una non-necessità di rinnovare l’apparato di velivoli.
Da un lato, il progetto parallelo Eurofighter Typhoon concepito assieme alla Luftwaffe, la Raf e la Spagna, ha mostrato prestazioni simili se non addirittura superiori al più “avanzato” F-35. Dall’altro, mettendo sul piano motivazioni di ordine etico e di opportunità, sostenendo che una difesa dalle minacce esterne (Terrorismo Internazionale, Armi di Distruzione di massa/Vettori balistici, minacce alla libertà di accesso alle risorse, sicurezza cibernetica, nella distinzione operata dal ministro Di Paola in un’audizione) può essere conseguita più efficacemente attraverso la cooperazione internazionale, piuttosto che attraverso una corsa agli armamenti, che comporta una crescita della spesa militare. Spesa ingiustificata e stridente con le condizioni di endemiche difficoltà economiche in cui versano altri settori, come l’Istruzione, la Sanità e la Cultura: senza dubbio più bisognose di interventi rapidi e di pianificazioni estensive e lungimiranti.