di Mattia Papa
In un’epoca come la nostra in cui tutto sembra morto, ogni fiducia verso il progresso dell’umanità è svanito. Tutto è appiattito, compreso l’avanzamento tecnologico, emblema della speranza degli anni passati per un futuro migliore. Tutto si è conformato all’estremo prodotto neocapitalistico e al volgare profitto economico che infetta ogni singola maglia della società civile. Si è spenta la scintilla che lasciava credere nel nuovo: tutto è morto.
Pare, quindi, che l’essere contemporanei – ossia quell’essere abbastanza lungimiranti da cogliere il reale intrecciarsi delle cose e porre le relazioni causa-effetto nel giusto ordine senza perdersi in nubi di apparenze, falsi miti e specchietti per le allodole, vedere in sintesi la vita nel suo scorrere per come realmente è – sia non solo impossibile, ma divenuto persino inutile. Perché a cosa mai potrebbe servire cogliere il giusto ordine lì dove tutto è morto, appiattito, in attesa che si stacchi la spina? C’è un ordine da porre in qualcosa di così statico e immobile? Anche il caos si è arreso, per paradosso, all’ingombrante stasi.
Tracciando linee grossolane dello sviluppo tecnologico e del processo di democratizzazione dell’occidente, si può distintamente vedere che le due componenti sono confluite in un’apertura globale che ha il suo acme nella comunicazione così quanto nella pluralità dei valori e nella diffusione della cultura (benché questa arrivi ormai falsata, storpiata e impoverita, come spesso ricorda Umberto Eco).
Negli cinquanta o essant’anni anni, ogni cosa ha visto mutare il suo senso più proprio, a partire dalla stessa comunicazione. Si è passati dalla radio alla TV, dal telefono al telefonino, dalle lettere alle e-mail; e benché in un pericoloso cambiamento, ogni nuova forma di comunicazione non era altro che il necessario sviluppo della tecnologia precedentemente prodotta.
Qualcosa cambiò profondamente, invece, con l’introduzione degli sms, poi delle chat e dei messenger, per giungere infine ai social network e la diffusione delle testate giornalistiche online: non solo la rete di relazione tra gli individui, ma la comunicazione stessa ne ha risentito fin dentro il suo essere più profondo.
Il momento decisivo – con il quale sicuramente possiamo identificare l’inizio di una nuova stagione per l’uomo, divenuto un commisto tra l’ameba e la scimmia – è giunto con l’introduzione del commercio su linea globale degli smartphone, con tutta la loro capacità di riassumere le innovazioni tecnologiche e massmediatiche della seconda metà del ‘900 e della prima decade del XI secolo nel palmo della mano di chi lo possiede.
E fu così che si permise a tutti di partecipare a tutto, lasciando che ognuno avverta – come giusto – di avere il sacro diritto di sentirsi parte della grande rete globale, fino al punto di provare un senso d’alienazione se non si riesce a possedere il suddetto oggetto, divenuto, per molti aspetti, demoniaco.
L’alienazione stessa ha subito un sovvertimento: qualche tempo fa si dava dell’alienato a chi si distaccava dalla vita reale dislocando se stesso in una realtà altra, che fosse il lavoro o la guerra. Oggi si definisce alienato chi vive all’infuori degli schemi virtuali, ossia chi non possiede uno smartphone.
Che questo voglia dire che abbiamo spostato la realtà nel virtuale? Abbiamo davvero, allora, perso le cose per cedere ad una vita senza vita, ad un “mondo dietro il mondo”, come scrisse Nietzsche?
In qualunque caso, alla grande capacità comunicativa si aggiunse – camminando di pari passo – la potenza concettuale della democrazia, la quale legittima (secondo la più comune ed erronea interpretazione) tutti a poter dire, fare e credere ciò che si vuole. Il diritto di avere idee e di poterle manifestare, di poter conoscere e di poter viaggiare; di poter lavorare, votare e sentenziare su ciò che si vuole. Il diritto di essere liberi, così si crede. La libertà viene fraintesa e inevitabilmente esasperata ogni volta che il prodotto del falso mito dell’apparente democrazia apre bocca.
Il poter fare teoricamente tutto – così si sintetizza l’erronea idea di un paese democratico – non indica necessariamente l’essere legittimati a prescindere a farlo. Anzi: l’aver la possibilità di poter fare qualunque cosa non implica direttamente la legittimità a farlo.
La democrazia permette che tutti possano avere la possibilità di poter essere legittimati, non direttamente il lasciapassare per ogni evenienza, mestiere e presunti talenti: essa non è il recinto finalmente rimasto aperto così che tutto il gregge possa andare, ognuno singolarmente, per la propria direzione. Questo assomiglia più allo stato di anarchia, posizione troppo scomoda quando ci si trova dinanzi allo stato istintuale del famoso homo homini lupus. L’esser totalmente svincolati dal prossimo era tanto scomodo da aver portato gli uomini ad unirsi in comunità nonostante il loro incredibile egoismo personale. L’“insocievole socievolezza” la chiamava Kant.
È allora in questo senso che il nichilismo si materializza: esso attinge la sua forza nullificante non tanto dal radere al suolo e creando il nulla (per usare un’immagine apocalittica), bensì dall’eccessivamente vasta pluralità di valori che partecipa alla costituzione della società civile e sfugge ad ogni tipo di controllo, democratico o coercitivo che sia.
Eppure si è lottato tanto in passato per l’indomabile e nobile impulso dell’essere libero (o del viscerale egoismo?): ogni guerra non è forse partita dalla non-dipendenza, dall’esser svincolati, dal non-voler-sottostare? È la guerra più lunga della storia quella della rivalsa sull’oppressore, unico vero motore della storia, come voleva Karl Marx. E infine si giunse anche al punto in cui si lasciò il potente con un’unica scelta: liberare il sottomesso.
Per l’umanità, però, passa in fretta il tempo e troppo facilmente si dimentica: non ci volle molto affinché il nuovo potere si adeguasse alla poltrona del vecchio. Il nuovo governo dei liberi, democraticamente istituito, costruì una subdola macchina autosufficiente, così che il popolo rimanesse libero solo nell’illusione di esserlo. Si necessitava di uno stratagemma ingegnoso, poiché le coscienze si erano risvegliate, nonostante tutto.
Si innescò allora un’implosione così tanto vasta che per vederne i confini bisogna aver gran fiuto e il coraggio di rischiare di esser confusi per insani di mente. Si diede al popolo la falsa illusione di libertà e di democrazia diffondendo strumenti massmediatici d’avanguardia sempre più accattivanti, quanto soporiferi per la coscienza. Si strumentalizzò l’istruzione così che, non per ignoranza, bensì per un ennesimo falso mito di cultura si volesse addormentare se stessi e fingere di esser svegli. Un autoinganno, in sintesi.
Nonostante tutto, però, non è persa la possibilità di esserci realmente e di poter partecipare, di svegliarsi e gridare contro – ancora una volta – l’oppressore. Ma le carte in tavola son cambiate, così come le strategie. Il gioco a chi guarda più lontano ha avanzato il suo orizzonte troppo oltre, tanto che bisogna quasi essere visionari per poterlo intravedere. Oggi il veggente contemporaneo si è perso, e chi vede ha comunque cumuli e cumuli di nebbia davanti agli occhi. Egli resta, nonostante tutto, l’unica cura, poiché solo un antidoto tanto potente può curare un tale fatale veleno. C’è bisogno di gridare un sì alla vita, per l’ennesima volta, una volta per tutte.
In ogni caso, grandi notizie in Italia: Pd finalmente in fin di vita dopo una violenta crisi di tafazzite. I 5S tornano nella galassia pieni di dubbi su eventuali alleanze. Bondi invoca la guerra civile. Berlusconi cede definitivamente il passo della politica dopo esser stato condannato in via definitiva. “Io non mollo” diceva. Poi l’annuncio di ritiro, stranamente arrivato poco dopo un particolare monito di Famiglia Cristiana: “Berlusconi, è ora di mollare”. Il Cav ha alzato la gamba, ha girato i tacchi e in lacrime è sceso dal palco. In tutti i sensi. Per il momento.