di Stefano Santos
E’ di un anno fa la notizia dell’iniziativa lanciata da Greenpeace “U mari nun si spirtusa”, che intendeva sensibilizzare l’opinione pubblica sul potenziale impatto sull’ambiente causato dal nuovo interesse che le compagnie petrolifere nutrivano verso le potenzialità estrattive dello Stretto di Sicilia.
Risale a qualche mese fa, invece, la pubblicazione da parte dell’ENI dello Studio di Impatto Ambientale (SIA) rispetto alla realizzazione di un pozzo esplorativo denominato “Vela 1” nell’ambito del permesso di ricerca di idrocarburi G.R 14.AG, rilasciato nel 1999 dal Ministero dello Sviluppo Economico. Consultando il sito del Ministero si apprende che titolare del permesso, oltre all’ENI, è anche la Edison, con una quota di partecipazione del 40% e che la zona d’interesse è situata nello Stretto di Sicilia, al largo del comune di Licata, in provincia di Agrigento.
Sullo studio Greenpeace ha espresso, in un documento, tutte le perplessità riguardo a diverse questioni.
Innanzitutto, è stato notato che i rischi calcolati sono stati circoscritti alla sola fase iniziale della trivellazione esplorativa, senza considerare le eventuali fasi successive che porterebbero alla realizzazione di diversi impianti di trivellazione nella zona. Questa pratica, cioè del frazionamento artificioso dei progetti sottoposti a valutazione, non permette di fornire una panoramica generale della gravità degli impatti ambientali e sociali delle trivellazioni offshore, né dice nulla riguardo alle condizioni di sicurezza in cui si troveranno a operare le successive attività commerciali.
La questione della sicurezza è quella che nel rapporto suscita le maggiori preoccupazioni, alimentate dalle lacune che si possono notare nello studio e dalle notizie non del tutto rassicuranti riguardanti gli impianti di trivellazione controllati dalla Saipem, azienda del gruppo ENI: come nei casi della Scarabeo 9 – l’impianto che dovrebbe compiere le trivellazioni del pozzo Vela 1 – che nel trasferimento dal cantiere di costruzione di Yantai (Cina) a Singapore ha imbarcato acqua, costringendo a lavori di riparazione e di ispezione; e della Scarabeo 8, che nel settembre del 2012 si inclinò di 7° al largo del mare di Barents in Norvegia, causando il richiamo dell’Autorità di Controllo norvegese alla Saipem Norway.
Il più probabile pericolo per la sicurezza, cioè lo scenario più plausibile, è un eventuale blow out, ossia la fuoriuscita incontrollata di idrocarburi dal pozzo, causa del disastro ambientale della piattaforma Deepwater Horizon a largo del Golfo del Messico. Nello studio viene solamente affermato che nel caso avvenisse ciò, entrerebbero in funzione le apparecchiature di emergenza (blow out preventer, B.O.P.) in grado di interrompere il flusso. Tuttavia, l’avverbio “solamente” desta in Greenpeace le maggiori preoccupazioni. Così come nel caso di condizioni climatiche estreme, in grado di mettere in pericolo la piattaforma con onde anomale: la Scarabeo 9 può affrontare, infatti, onde alte fino a 25 metri, e le previsioni di onde massime nella zona arrivano ai 15 metri. Eppure, è il caso di ricordare che nel 1982 la piattaforma Ocean Ranger, progettata per resistere a onde alte fino 32 metri, fu affondata da frangenti di 20 metri. Come già detto, è la scarsità di ulteriori informazioni a preoccupare.
Altrettanto importanti sono le questioni riguardanti l’impatto dell’operazione a livello ambientale e sociale. L’eventuale inquinamento causato dalle concrete attività di esplorazione viene ammortizzato, nello studio, dalla considerazione che le masse d’acqua dell’area interessata constino principalmente in tre strati sovrapposti, a cui si aggiunge uno strato “profondo”, al di sotto dei 500 metri. Le acque di questi due super-strati sarebbero “immiscibili”. Viene ribattuto che iniezioni di metano o altri idrocarburi non contaminino solo gli strati intermedi, ma anche quelli superiori per la tendenza dei gas a diffondersi verso l’alto. Con conseguenze devastanti per l’industria ittica, con i pescherecci a strascico che si ritroverebbero con il pescato contaminato e la definitiva compromissione dello stock di acciuga. Non bisogna dimenticare che oltre due terzi del fatturato del comparto peschereccio in Sicilia è realizzato presso lo Stretto, e che a sua volta la Regione dà lavoro a un quarto dei pescatori italiani. Senza dimenticare l’impatto che un eventuale disastro avrebbe sul turismo costiero siciliano.
Essendo, inoltre, lo Stretto di Sicilia crocevia tra il continente europeo e quello africano, è nella maggior parte dei casi tappa obbligata nelle lunghissime migrazioni di uccelli. Riportando come fonte il Parco regionale del Conero, nelle Marche, e un’immagine molto semplificata delle rotte migratorie degli uccelli, lo studio afferma invece che non siano state segnalate rotte migratorie e che le attività di estrazione “difficilmente potranno arrecare disturbo agli ambienti costieri, né si prevedono interferenze con le specie che utilizzano lo spazio aereo al di sopra dell’area di progetto come corridoio ecologico.”
Tuttavia pare che la già menzionata contaminazione dei pesci – cibo prediletto dagli uccelli – e la loro tendenza a essere attirati dalle strutture delle piattaforme petrolifere (per l’ombra di giorno, per la luce di notte) non possa essere definita un’interferenza con l’avifauna locale e migratoria.
Altre carenze di analisi vengono messe in luce, come le emissioni di polveri ultrasottili, i dettagli sui fanghi lubrificanti e i prodotti chimici usati (rinviati a successivi studi), l’omissione riguardo agli effetti delle piccole perdite di lubrificanti – giudicate come non rilevanti – e l’inquinamento acustico, definito come “basso” o “trascurabile”.
Sommate a quelle descritte sopra, si ricava un insieme che non può essere accettato come esaustivo o sufficiente, sicuramente bisognoso di revisioni e integrazioni molto più approfondite e curate.