di Mattia Papa
“L’antica leggenda narra che il re Mida
inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso,
senza prenderlo.
Quando quello gli cadde infine tra le mani,
il re domandò quale fosse la cosa migliore
e più desiderabile per l’uomo.
Rigido e immobile, il demone tace;
finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa
in queste parole:
«Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena,
perché mi costringi a dirti
ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire?
Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile:
non essere nato, non essere, essere niente.
Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto»”.
(F. Nietzsche, “La nascita della tragedia”)
Cosa direbbe, se fosse ancora vivo, Flaubert di Hollande? E Orwell di Cameron? Ed il caro e vecchio Hemingway, cosa penserebbe dell’attuale situazione americana e dell’operato di Obama? Quale sarebbe il giudizio di Marx sulla Merkel e, perché no, di Dostoevskij su Putin? Insomma, cosa direbbero i grandi personaggi del panorama culturale del passato sugli attuali reggenti del potere? Cosa direbbe il Vecchio al Nuovo? Avete mai pensato a cosa potrebbe dire Dante a o su Berlusconi? Ve lo immaginate il Sommo Poeta alle prese con il problema di dover mettere l’ex-premier nella Commedia? Lui – il Cav – sicuramente proporrebbe un ruolo d’eccezione: o Lucifero o (se in campagna elettorale) quelle ultime righe del XXXIII canto del Paradiso: “l’amor che muove il sole e l’altre stelle”.
L’auspicio è, all’infuori delle fantasie su strambi confronti tra passato e presente, di servirsi dei grandi dei tempi andati per costruire un futuro migliore, ma soprattutto per ben orientarsi nel presente. Ed uno che di presente ha sempre provato a capirci qualcosa è senza alcun dubbio Friederich Hegel. Emblematica, infatti, la sua definizione di filosofia: “La filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero”. Essa, secondo il filosofo, non può superare la propria età, né essere premonitrice, bensì può cercare di comprendere il presente e di dimostrarne l’intrinseca necessità.
Senza perdersi nella spiegazione del complesso pensiero hegeliano, la sua modernità è incontestabilemente incredibile, soprattutto quando accendendo la tv e vedendo parlamentari alle prese con videogame e social network durante le sedute, si legge quanto scrive l’autore della Fenomenologia dello spirito in merito al popolo che vive con una classe politica nulla: “La morte naturale dello spirito di un popolo si può mostrare sotto forma di nullità politica. […] Così individui, così popoli muoiono di morte naturale; e se anche questi ultimi continuano ad esistere, si tratta di un’esistenza priva di interesse e vita, che non ha più bisogno delle proprie istituzioni”. Il popolo giunge ad una condizione di abitudine, dove nulla più conta ed ogni scappatoia dalla malattia della modernità è bene accetta, che essa sia sottoforma di videogame o di una siringa. Ogni forma di dipendenza è la benvenuta lì dove il compito che ogni popolo ha creduto di prefiggersi è fallito o – perché no? – giunto al termine: insomma dove il terribile presagio della vacuità dell’esistenza prende forma e non riesce più a nascondersi. Per chiarirci, quel che nella citazione è riportato con le parole di Nietzsche.
Scrive Hegel: “Quando dunque il popolo si è sviluppato pienamente e ha raggiunto il suo scopo, il suo interesse più profondo vien meno. Lo spirito di un popolo è un individuo naturale; come tale fiorisce, è in forze, decresce e muore”. Ma quanto è difficile affrontare la morte? L’uomo ne sfugge dall’inizio della sua storia; e la morte stessa rappresenta – per dirla sommariamente – la nostra stessa essenza (come ci ricorda Heidegger quando denomina l’esserci come essere-per-la-morte, o Jaspers con la definizione di situazione limite nell’esistenza).
Noi moriamo, i nostri buoni intenti falliscono o giungono semplicemente a termine. Le conformazioni politiche mutano; anche i continenti mutano. Muta l’economia, l’architettura delle città, la conformazione delle strade e la tecnologia. E con essa la comunicazione, la lingua e la vita stessa. Ogni cosa muta, e mutando lascia la sua forma precedente. Più semplicemente, muore. Il che, in un discorso politico, non vuol dire necessariamente dover cancellare stati e scatenare guerre (anche se è inutile parlarne là dove la possibilità di una nuova guerra in Medio Oriente è molto vicina, così come un suo sbocco in un futuro conflitto mondiale), ma esser sempre pronti ad una nuova fase, disposti a perdere anche definitivamente alcuni ricordi del passato (volendo essere poetici). Tutti coloro che sono contrari e favoriscono così una situazione di stallo perenne – come in Italia i partiti e vari movimenti – sono i colpevoli del degrado e del disfacimento di intere generazioni, poiché essi stessi promotori di una mancata educazione e sensibilizzazione alla tragicità del vivere così quanto del pensiero critico. Azioni che deteriorano i paesi in pochi anni, si ripercuotono per decenni sulla storia di tutto il mondo.
Non c’è angolo dell’occidente che non si possa – chi più chi meno – adeguarsi alle parole hegeliane sulla fine del proprio tempo, eppure si preferisce continuare le vecchie guerre per vecchie materie prime invece di favorire nuove paci per nuove collaborazioni e futuri metodi di mantenimento. Si preferisce distruggere le nuove generazioni con armi chimiche, invece di favorirne l’istruzione e si preferisce mantenere il proprio stato di potere e vecchie dinamiche in stile guerra fredda, invece di progredire giungendo a nuovi assetti politici. Insomma, si preferisce essere obsoleti e conservare tensioni.
Ogni parola di chi scrive è ovviamente tacciabile di banalità ed io stesso di essere stato vago lungo tutto l’articolo. Ma è proprio per questo che rimando ai vecchi autori, ai vecchi libri e alle vecchie parole, poiché esse sono l’unica cosa di vecchio che, al giorno d’oggi, risulta paradossalmente nuova e utile per l’interpretazione del nostro tempo. Ma il che è ovvio, avendole noi dimenticate preferendo interpretazioni per sentito dire e strumentalizzazioni a cui abbiamo annuito senza alcuna opposizione, e a cui continuiamo – anche se con disprezzo e qualche dubbio – ad annuire.