di Giacomo Palombino
Il nostro viaggio alla scoperta della musica inglese inizia da Londra. Non sarebbe sbagliato chiedersi perché proprio da qui, in quanto il grande centro, la metropoli illuminata e fotografata, non necessariamente è l’inizio di qualcosa. Si ritiene che la maggior parte delle volte, nella più gran parte dei casi, queste grandi città siano la meta di arrivo e non la tappa di partenza: pensiamo agli Abbey Road Studios, che, dagli anni Sessanta con i Beatles fino agli anni 2000 con i Muse, sono stati un centro propulsore di innovazione per la musica inglese, e in particolare hanno raccolto nel corso degli anni nuovi talenti dai vari angoli della terra britannica per lanciarli alla conquista artistica del mondo. Non venga dimenticato, inoltre, che Londra è sede della EMI, leader dell’industria discografica nonché, appunto, fondatrice di quelli stessi studi di registrazione sopra citati.
Tutto questo serva da spunto per capire che l’analisi musicale riguardante una città come la capitale britannica può essere impostata in modi diversi, e di conseguenza prendere pieghe diverse. Possiamo vederla come meta di arrivo o come trampolino; come oceano affollato di voci desiderose di attenzione o come deserto sotto assedio da fuggiaschi incompresi. Quello che però affascina di Londra, e che un po’ accomuna e collega in un esorabile vortice tutte le grandi capitali del nostro “fortunato” mondo occidentale, è quella disponibilità di occasioni, di opportunità che sembra riempire ogni singolo angolo: l’arte non si nasconde, non è mai “esclusiva”, e, se lo è, viene maggiormente esaltata da un’immensa curiosità che prima di chiunque altro colpisce l’artista stesso, che non è geloso del proprio rivale, pittore o musicista che sia, perché, seppur concorrente, è desideroso di avanguardia, di novità.
È questo che rende la città speciale, unica per certi aspetti; è quest’atmosfera che permette di dipingere Londra come un centro ricco d’idee, di colori che sembrano assumere sfumature diverse, forse a causa delle onnipresenti nuvole grasse di pioggia o del contrasto tangibile fra antico e moderno, fra casupole e grattacieli.
A cavallo fra gli anni ’60 e ’70, la metropoli doveva apparire come un posto dove molto era consentito, o meglio, dove molto appariva possibile: dietro la ferrea rigidità e serietà inglese, tanto, per alcuni forse anche troppo, è successo. È qui che l’arte ha assunto un atteggiamento ribelle, qui è diventata spregiudicata e talvolta maleducata, incurante di quelle “buone maniere” che imprigionavano il mondo giovanile in un fragile recipiente di cristallo: è qui, nei club dove decine di future leggende cominciavano a suonare (si pensi agli Stones, agli Who, ai Pink Floyd), che il cristallo si è infranto. Risulta difficile non pensarla così quando si legge la lunga lista di nomi che lì hanno raggiunto la fama; ma risulta ancora più difficile se si pensa che Londra, e su questo ci permettiamo di sbilanciarci a svantaggio dei rivali yankee, è la patria indiscussa del movimento punk (attenzione, non si usa la parola musica, ma movimento). Il punk, che oggi subisce troppo spesso delle valutazioni bizzarre e purtroppo inconsapevoli da parte degli occasionali commentatori di strada, è l’esplosione definitiva di una bomba, la meta ultima di una miccia che porta con sé una scritta lunga e deformata che significa allo stesso tempo novità ed esagerazione, avanguardia ed eccesso. La potremmo definire quasi una moda (nel senso più politicamente corretto del termine) che ha trascinato i ragazzi londinesi nell’era artistica immediatamente successiva a quella degli anni Sessanta, continuando a sospingerli per i vicoli di Camden Town o di Coven Garden ancora oggi, attraverso quel vento che vuole sapere di diverso e soprattutto apparire diverso. Passeggiando per i vicoli di quelle zone viene quasi da soffermarsi a pensare guardando una ragazza qualunque con i capelli rosa o un orecchio completamente ricolmo di piercing: è vero, un esibizionismo come tanti, ma lì ha un sapore e un significato diversi, rievocando un atteggiamento di avversione al sistema che ancora è possibile toccare. È qui, d’altra parte, che presero vita i Sex Pistols e i Clash, nomi che non possono essere tenuti fuori dal nostro viaggio.
Questo articolo, per la massiccia mole di materiale esistente, meriterebbe di non finire qui, ma una valutazione finale è comunque idonea a chiudere la parentesi londinese in attesa di un nuovo episodio di questa rubrica. In qualunque modo si decida di vederla, Londra è uno snodo fondamentale e cruciale per la musica moderna, poiché è stata e continua ad essere centro propulsore ed anche di innovazione per la stessa (si pensi ai generi dubstep e grime, che negli ultimi anni hanno trovato spazio nella capitale). Alla luce delle riflessioni fatte, e al contrario di quello che si potrebbe pensare, non si vuole considerare la capitale una tappa di partenza, ma una meta dove uomini erranti, che siano artisti privi di palcoscenico o divulgatori privi di voci altisonanti, hanno trovato e continuano a trovare un pubblico curioso ed altrettanto errante. Londra è questo, un crocevia d’idee dal gusto innovativo.