Annoiati, e pure un tantino disgustati, dalla politica nostrana, monopolizzata dalle liti interne al Partito Democratico e dai problemi giudiziari del leader del centro-destra, rivolgiamo lo sguardo altrove, anzi all’“altrove” per eccellenza, in termini geografici e non solo. In pochi sanno che sabato scorso, in Australia si sono tenute le elezioni per il rinnovo del Parlamento e che 14 milioni di cittadini hanno scelto di mandare a casa il governo laburista di Kevin Rudd, assegnando il loro voto alla coalizione conservatrice guidata da Tony Abbott. E certo ancor meno si sa dalle nostre parti circa il funzionamento della più lontana, della meno occidentale fra le democrazie occidentali, e le sue vicende più recenti. Basti dire che l’Australia è uno dei pochissimi Paesi al mondo che prevede l’obbligo di voto per accorgersi della distanza oceanica (culturale e politica) che ci separa: lì, ogni cittadino è iscritto nei registri elettorali e se qualcuno scegliesse di non votare è tenuto a pagare una multa e rischia persino di essere chiamato a comparire davanti al giudice. Un controverso, ma certamente efficace, antidoto all’astensionismo, per una nazione già poco popolata in rapporto all’enorme estensione del suo territorio; un sistema che qui da noi, coi livelli estremi di disaffezione alla politica raggiunti negli ultimi anni, incontrerebbe molte difficoltà di applicazione e per di più sarebbe giudicato illiberale. Meno stravagante deve risultare all’occhio italiano ed europeo l’architettura istituzionale del Paese dei canguri: accanto e formalmente al di sopra del Primo Ministro e del suo governo c’è il Capo dello Stato, ovvero Sua Maestà la Regina di Gran Bretagna, rappresentata in terra australiana da un Governatore Generale che ne fa le veci; il Parlamento è bicamerale come in quasi tutte le nazioni europee e occidentali in genere, e comprende Camera dei Rappresentanti e Senato. Il sistema politico è sostanzialmente bipartitico, come in gran parte del mondo occidentale (in questo è l’Italia ad essere decisamente “down under”), con due grandi forze, il Partito Laburista e il Partito Liberale, che giocano per vincere e si alleano di tanto in tanto con soggetti politici minori, come i Verdi a sinistra e il Partito Nazionale-Agrario a destra.
Il “Grillo” locale, quel Julian Assange che lega il suo nome allo scandalo Wikileaks e che nelle elezioni australiane aveva visto la speranza di tornare finalmente a casa dopo il lungo esilio londinese, si è rivelato un fiasco completo, segno che il bipartitismo in Australia è solido e difficile da sradicare. No, l’Australia non è l’Italia. L’Australia è una compiuta democrazia dell’alternanza, in cui o governa l’uno o governa l’altro e il sistema elettorale maggioritario basato sui collegi uninominali impedisce che si creino situazioni di stallo. È così che, dopo sei anni di governo laburista, le elezioni di sabato scorso hanno sancito una svolta. Un terremoto elettorale che, secondo molti analisti politici, più che una vittoria dei liberali rappresenterebbe una sconfitta dei laburisti. I governi che essi hanno guidato a partire dal 2007 hanno conseguito ottimi risultati in campo economico, contrastando efficacemente la crisi finanziaria internazionale, ma per farlo hanno dovuto alzare le tasse, e ne hanno anche introdotta una nuova, la carbon tax sulle emissioni di gas serra, che ha aumentato il costo delle utenze domestiche, incidendo non poco sulla vita delle famiglie. All’impopolarità di certi provvedimenti si è aggiunta la cronica litigiosità interna al Partito Laburista che ha portato, dal 2007 ad oggi, alla nascita di ben tre governi: il vincitore di sei anni fa, Kevin Rudd, è stato fatto fuori nel 2010 dal suo stesso gruppo parlamentare, che lo ha sostituito con la vicepremier Julia Gillard; la Gillard è stata a sua volta silurata nel giugno di quest’anno da Rudd, il cui ritorno però, favorito da una serie di sondaggi disastrosi per la premier in carica e il partito, non è riuscito a scongiurare la disfatta. Se si considerano anche il forte appoggio offerto ai liberali dall’impero mediatico di Rupert Murdoch (giornali e televisioni) e le mirabolanti promesse di abbassamento delle tasse fatte dalla destra in campagna elettorale, il risultato è presto spiegato: l’elezione di un personaggio ambiguo come Tony Abbott, soprannominato “mad monk” (monaco pazzo) per il passato da seminarista e per le sue posizioni da cattolico intransigente, segna l’ascesa al potere della peggiore destra australiana, quella più ferocemente nazionalista e xenofoba, bigotta e reazionaria. E insieme, segna la sconfitta più dura della sinistra. Una sinistra pronta a far fuori i suoi uomini migliori in nome di oscuri giochi di palazzo. Una sinistra autolesionista, che con le sue diatribe interne fa la fortuna di una destra improbabile, populista e plutocratica. No, l’Australia non è l’Italia.
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