di Mattia Papa
«[…] un uomo ingegnoso e saggio di mente inventò il timore degli dèi,
in modo che facesse da spauracchio ai malvagi,
anche per ciò che pensassero e dicessero di nascosto.
Così facendo, quell’uomo divulgava il più gradito degli insegnamenti:
“avvolgere la verità in un finto discorso”»
da Sofista di G. Casertano (ed. Guida, Napoli, 2004)
Il sodalizio invalicabile e inestricabile che sussiste tra il mito e la politica risale agli albori della società. Ma con l’avvento della democrazia, quasi necessario è divenuto l’abbandono di qualunque forma di mitizzazione: la democrazia deve essere demitizzata.
La democrazia è veramente demitizzata? È forse questo definibile il mito del non-mito? E quanto la politica italiana è priva di quei simboli sottendenti il mito stesso? Andiamo con ordine.
Volendo analizzare il punto di vista del mito politicamente ambiguo, si potrebbe far risalire la tradizione ai primi romantici tedeschi e alla loro tendenza a ricercare motivazioni mitiche attraverso indagini sull’origine della storia dell’umanità, la rottura dell’unità originaria e la presa di coscienza che tolse l’Uomo dallo stato di beata ignoranza. Il discorso riguardante nello specifico i tedeschi, però, richiama necessariamente motivazioni più profonde e radicate di quanto invece la funzione del mito in politica ha avuto e tutt’oggi continua ad avere. Poiché, considerando la necessità che ha per lungo tempo mosso gli spiriti della Germania nella ricerca di una identità nazionale, non si può evitare di notare un profondo dramma che prescinde dal mito e che, anzi, nel mito creato dal nazional-socialista ha infine trovato espressione. In merito a questo rimando al testo di due filosofi (Lacoue-Labarthe e Nancy) intitolato “Il mito nazi” edito in Italia presso la casa editrice il Melangolo.
Volendo tornare ancora più indietro del romanticismo tedesco, già nel periodo dei greci la tradizione del “gruppo degli atei” (di cui faceva parte Crizia, ad esempio) tramandatoci da Sesto Empirico, vedeva nella religione un’invenzione di uomini d’ingegno a fini politici. Si legga, in proposito, la citazione riportata all’inizio dell’articolo con la quale, tengo a sottolineare, non si ha alcun intento di offendere credi o religioni, bensì la presa di coscienza – come già fecero gli intellettuali antichi – che la fede (verso una religione o un mito che sia) ha sempre attecchito lì dove il controllo sfuggiva al mero costituire leggi.
Lacoue-Labarthe e Nancy scrivono che il mito e la sua costruzione protendono verso la fondazione di un Evento, tappa di arrivo del processo mitico. Durante il nazismo, ad esempio, l’attesa e la tensione si condensava intorno all’Evento assoluto e fondante la già ferita nazione tedesca. Tale Evento aveva maggior ragion d’essere nella Germania post prima guerra mondiale proprio perché già forte era il desiderio identificativo che nel corso dei secoli si era addensato nel popolo che diede i natali ai grandi filosofi e musicisti dell’occidente, nonché del Sacro Romano Impero Germanico, proprio la cui estensione non permise una costruzione di una identità prettamente sviluppata e sintetizzata così come invece avvenne nelle altre zone dell’Impero, poi divenute monarchie indipendenti.
La differente storia della Germania – la quale ha ora tutt’altro aspetto e ha saputo rialzarsi per l’ennesima volta per quella forza che le è sempre stata caratteristica – rispetto le altre nazioni, non nega però il fatto che il mito sia sempre in qualche modo forma di identificazione attraverso simboli (perlopiù figure che s’incarnano in racconti e immagini dell’ideale collettivo) e che ogni popolo ne ha avuto e continua ad averne. La stessa Unione europea cerca di unificare sotto un’unica identità le varie e singole tradizioni nazionali che la compongono, poiché senza questa nessuna unione economica potrà ancora reggere.
Il problema sta nel voler creare identità senza voler costituire un mito e senza la costruzione di un Evento: come si diceva più sopra, la democrazia deve essere demitizzata e non è possibile creare un’ideologia così come la descrisse Hannah Arendt. Scrive la filosofa tedesca in “Le origini del totalitarismo”: l’ideologia è la “logica, totalmente realizzata, di un’idea attraverso cui è possibile spiegare la storia come processo unico e coerente”.
È ovvio sottolineare che la Arendt scriveva ancora sotto l’influenza del trauma del secondo conflitto mondiale e dello sterminio degli ebrei e che quindi non si possono illuminare le sue parole di una vaga speranza per il futuro. Ma, in una nuova visione dell’ideologia, non si potrebbe riabilitare la funzione mitica? Non si potrebbe far fruttare gli insegnamenti degli errori passati in una fondazione di un Evento realmente voluto come un disegno di una pace perpetua, per dirla con Kant?
Le cose son ben più complesse di quanto possano esser scritte: ci sono conflitti sottobanco e interessi economici che trascendono quelle che possono essere le analisi sul contemporaneo e sulla democrazia. La quale poi, a furia di evitare il mito, non sta forse vivendo il mito del non-mito? E l’Evento del non-costruire Eventi non è già pienamente compiuto? Non siamo forse nell’immobilismo e in un’ideologia che determina la conclusione di ogni possibile svolta e andamento storico? Come si potrebbe far politica o come mutare le cose se non si è più mossi da un sentimento forte come il sentimento mitico? Edgar Morin ci ricorda che “come un uomo non si nutre di solo pane, così una società non si nutre solo di gestione. Si nutre anche di speranze, di mito, di sogno”.
E quale nazione e quale popolo adora il mito, il sogno, il simbolo più dell’Italia? Cosa sarebbe mai altrimenti tutta questa ansiosa ricerca di nuovi idoli e modelli che durano pochi mesi per poi esaurirsi come l’effetto di una droga sul drogato ormai assuefatto e che ne necessità sempre di più, fino a morirne? Belen e Stefano, Costantino e Daniele, vincitori di talk-show, etc. Ma cosa sono mai se non lo snervante tentativo di un paese ai limiti della disperazione e che cerca identificazioni e sogni in modelli irraggiungibili, perlopiù gli stessi?
Insomma, davvero è possibile dirsi nel post-storia (come volevano Lacoue-Labarthe e Nancy nella conclusione alla Prefazione de “Il mito nazi”)? Qui si parla più di immobilismo e di una profonda crisi di un Sistema che non sa più mettersi in discussione, creare miti nuovi e positivi, forse per la paura di nuove terribili stragi. Ma se è così, allora perché quei bambini tragicamente uccisi in Siria?
Sarebbe forse stato meglio ingannarsi attraverso falsi miti e falsi dèi poiché, “prima che l’orrido sipario della realtà cali su di noi” (Allen), ci poteva esser d’aiuto sapere d’averci almeno provato, questa volta consapevolmente. Ma è troppo tardi: il sipario è già calato e l’umanità è troppo cresciuta (o troppo incapace?) per cedere – consapevolmente – a nuovi miti, a nuove speranze. Meglio falsi simboli e lente agonie.