Anna Maria Ortese è considerata, accanto a figure quali Elsa Morante, tra le maggiori prosatrici italiane del secondo Novecento. Scrittrice inclassificabile, fu capace di osservare la realtà sociale dell’Italia del dopoguerra con uno sguardo penetrante, ma non per questo assimilabile al neorealismo – colpevole a suo dire di gravare eccessivamente nella cronaca senza riuscire a dominarla. La sua produzione letteraria, pur avendo abitato in diversi luoghi nel corso della vita, è legata soprattutto a Napoli, città che più di tutte è riuscita a lasciare un segno indelebile nell’animo della scrittrice e a stimolarne l’ispirazione letteraria.
Non vi fu invece un rapporto altrettanto idilliaco con l’intelligencija cittadina, soprattutto con la pubblicazione della raccolta di novelle “Il mare non bagna Napoli”, vincitore del premio speciale per la narrativa al Premio Viareggio del 1953 e che la fece conoscere al pubblico. Una raccolta in cui emerge una Napoli quasi “infernale”, con una descrizione dei vicoli e del “vascio” da cui emergono figure miserevoli e cenciose, non più osservate, come facevano altri scrittori della “napoletanità”, con una benevola complicità, ma senza retorica, con uno sguardo critico e lucido. Questa descrizione della città le valse l’ostracismo della classe intellettuale e l’ingiusta nomea di antinapoletanità, eventi che la costrinsero a lasciare la città e a peregrinare per l’Italia, fino al ritiro in Rapallo, in cui morì nel 1998.
“Il mare non bagna Napoli”, oggi, costituisce una “parte importante della stagione del Teatro Stabile di Napoli”, dalle parole del suo direttore Luca De Fusco, poiché si tratta di un progetto teatrale che si snoderà da ottobre a dicembre, declinato in cinque spettacoli, ognuno dei quali riprenderà le novelle della raccolta, ognuno variamente interpretato dai registi che si cimenteranno nella produzione delle rappresentazioni, che si svolgeranno tutte sul palco del Ridotto del Mercadante.
Per l’apertura della serie, il direttore artistico ha voluto “riservarsi” la novella più emblematica e rappresentativa, “Un paio di occhiali”, in scena dal 15 al 20 ottobre 2013. La scelta registica è stata improntata all’essenzialità: una scenografia spartana, consistente in una poltrona, uno specchio, e uno schermo, in cui sono state proiettati i primi piani dell’unica attrice protagonista, Gaia Aprea, a cui è stato affidato il compito di interpretare il racconto sotto forma di racconto, senza alcuna riduzione. Eugenia Quaglia è la terzogenita di una povera famiglia abitante in un “vascio” in Vico della Cupa a Santa Maria in Portico (oggi via Palasciano nei pressi della Riviera di Chiaia). La madre Rosa è confinata a letto per l’artrite, causata dall’umidità della casa; il padre Peppino invece deve fare i conti con la presenza opprimente della Marchesa d’Avanzo, proprietaria dell’edificio; la zia paterna Nunziata, con una visione radicalmente amara del mondo. La bambina ha un serio problema di miopia: è quasi “cecata” se non indossa degli occhiali, che costano ben 8000 lire del secondo dopoguerra. Una cifra ben al di sopra dell’affitto mensile, un privilegio per la bambina, che non manca mai di mostrare il suo entusiasmo per il prossimo acquisto, che le permetterà finalmente di discernere i dettagli in ciò che finora era stato solo una macchia indistinta, un velo che per lei nasconde un mondo idealizzato, bucolico, sordo ai richiami della zia e delle genti che gravitano attorno al vascio. Una verità ben lontana da quello che si sarebbe immaginata e che la riporta violentemente nei ranghi, quando finalmente avrà gli occhiali tanto desiderati.
La narrazione della Aprea riesce a catturare lo spettatore, senza che vi siano cali dell’attenzione tali da compromettere la fruizione dell’opera, aiutata certamente dallo stile della Ortese, vivido, evocativo e verosimile nelle descrizioni. Una performance accolta entusiasticamente dal pubblico, che ha tributato all’attrice un lungo applauso di apprezzamento.