di Mattia Papa
Il silenzio è, a ben vedere, un paradosso del pensiero. “Non esiste!” si può decretare. Eppure ne parliamo. Continuamente. È, di per sé, un bizzarria, un rompicapo dal sapore linguistico tra le infinite parole di tutti i giorni. Cosa allora si vuol significare quando si parla di silenzio? Non è forse, nel suo essere un che di taciuto, la verità che non viene detta tra le mille parole delle menzogne? Vediamo.
In primo luogo, cosa si dice? Con il verbo dire, non si deve intendere semplicisticamente – ai fini di questo articolo – ciò che si pronuncia attraverso l’uso della parola. Senza perdersi in arzigogolate spiegazioni e definizioni manualistiche, possiamo concordare all’unanimità che ciò che si dice passa per diversi canali di espressione e che quindi, non solo la voce, collabora alla comunicazione.
Gli esseri umani comunicano attraverso segni – linguistici o no –, attraverso gesti e anche (ovviamente) parole. È attraverso la comunicazione che si intesse quell’aggrovigliata matassa di concetti che intaglia dall’oscurità del caos irrazionale il nostro mondo. Il linguaggio è ‘creatore’ del mondo e delle cose.
Molta filosofia si è spesa in merito alla funzione creatrice del linguaggio, ed è di dovere ricordare le parole di W. von Humboldt quando diceva: “Il linguaggio è il mezzo, se non assoluto quantomeno sensibile, attraverso il quale l’uomo dà forma al tempo stesso a se stesso ed al mondo, o meglio diviene cosciente di sé, progettando il mondo fuori di sé”. In poche parole, l’uomo disegna i suoi contorni temporali, spaziali e la struttura dello stesso genere umano attraverso lo scambio di informazioni, interpretazioni, suggestioni: comunicando.
Il silenzio, nella sua accezione più comune sta nel significato di non-comunicare. Almeno così lo si pensa. Ma data l’evidente impossibilità dello stare in silenzio (ossia di non-comunicare), non è forse il tacere la migliore definizione di quel che si vuole davvero intendere quando si parla di silenzio? Si dovrebbe ricadere in disquisizioni sul Nulla e sulla sua esistenza, sul pensare l’impensabile e quindi renderlo reale nonostante la sua inesistenza (come può esistere ciò che non esiste?), ritornare infine sull’antica questione della filosofia parmenidea tra l’essere e il non-essere. Inutilità e parole fini a se stesse, poiché se è solo una nostra astrazione, il problema non sussiste poiché nell’esser-ci del qui e ora, è quel che c’è a contare.
Il non-parlare non indica il non-esserci, bensì semplicemente il tacere, il non emettere parole. Questo non dimostra però un’assenza di comunicazione, lì dove il semplice fatto di esistere è di per sé un rilevante punto di influenza nella realtà dei fatti e quindi collaborazione al disegnare i contorni delle singole vite.
Dei silenzi se ne è parlato molto: Heidegger ha riflettuto molto sul silenzio dell’Essere, un musicista (o un filosofo per musica, come piace definirlo ad alcuni) del calibro di John Cage ha parlato dell’inesistenza del silenzio. Nietzsche stesso – che delle parole, in quanto filologo, conosceva il potere e ben sapeva affilarle come armi per le sue battaglie – riguardo un analogo silenzio dell’essere (il silenzio della Verità) preferiva immaginare una roccaforte inoppugnabile in cui la Verità stessa era (e resta) chiusa, piuttosto che di una inesistenza del vero; e non ha mai lasciato che la sua riflessione si piegasse – ancor peggio – fino a spingersi a definire ciò che si nasconde e che solo avvertiamo come continuamente influente nella nostra esistenza, ma che non riusciamo a vedere. La verità silenzia, nel senso che tace. Ma non taglia i ponti con l’essere delle cose: essa agisce e influisce così come ogni individuo che tace, fa nel mondo. Il silenzio in quanto annullamento di ogni riflessione e facoltà comunicativa è una menzogna; e così come ogni menzogna, carica di parole.
Ciò che cerca di definire l’indefinibile, di trattenere l’esagitato, di sedare quel che freme per uscire e manifestarsi, è una menzogna. Non si può dire l’essere, né esperire il silenzio. Ma si può tacere: si può scegliere di tacere.
Si potrebbe addirittura scegliere di tacere per poter scegliere meglio le parole da dire e quindi, scegliersi e scegliere gli altri. Sarebbe un’azione caratterizzata da un forte sentimento morale, poiché fatta nella consapevolezza di ogni parola e di ogni interpretazione che il nostro comunicare intaglia tra le cose creando così il mondo – come si diceva più su.
Invece non si tace, anzi. La credenza è che tutto ciò che apre bocca è rivelatore. Senza distinzioni di sorta, ogni parola acquista il suo consistente peso di assoluta verità, lì dove perlopiù è la bugia e l’ignoranza, la paura e il disagio, il sentimento e l’inadeguatezza verso il mondo che corre e a cui non si riesce a stare dietro. Si crea un mondo, così, che non solo non è nostro (poiché noi povere vittime inconsapevoli sentenziamo senza sapere) ma colmo di menzogne e false interpretazioni della verità tacente.
È il mondo della menzogna il nostro, delle troppe parole che non dicono nulla, che appunto silenziano nella accezione più pura della parola, ossia l’inesistenza. Il silenzio è rumoroso: il mondo delle troppe menzogne e delle false comunicazioni. Un mondo costruito sulla condivisione di informazioni fasulle.
Non sto parlando di fantasie o astratte considerazioni: mi riferisco a tutte quelle fotografie ritoccate e poi gettate in rete sui social network, le frasi famose di autori passati che aprono blog e profili online di persone che probabilmente non hanno neanche lontanamente idea di cosa si stiano occupando quelle parole che ora invece marchiano il loro apparire nella rete e che inevitabilmente influiranno sulla loro vita reale. L’uso smodato della chirurgia plastica nella sua parossistica variante patologica di mutare infinitamente se stessi così da compensare l’assenza d’identità con il vuoto di quella dell’aspetto fisico. Parlo della necessità di dover dire tutto a tutti in ogni singolo momento rimanendo sempre fedeli a quell’immagine distorta (perché prima o poi ogni immagine si distorce, sia anche solo per l’invecchiare e ingiallirsi se non curata) che siamo diventati, mai evadendo dal rigido schema di finti stati d’animo e allucinanti obblighi in cui ci hanno ingabbiati. In una nebbia così densa che non diciamo altro se non l’inutile, il superfluo e mai la dannosa gravità delle cose. Abbiamo acconsentito a tutto questo per un’altrettanto fasulla idea di libertà: smartphone, prestiti e mutui per una liquidità che permette di acquistare auto e case. Insomma, l’illusione ben mascherata dell’essere liberi.
La parola ha mentito, poiché non ha voluto ascoltare il silenzio dentro di sé. E neanche ci si accorge che ora tace ogni cosa, per quanto incredibile sia il rumore che ci circonda: la Verità tace. E con essa anche il nostro spirito assuefatto e disincantato al nuovo e alla ribaltamento di ogni sovrastruttura.
È, tra tutte, la menzogna più grande quella di un paese che tace intorno all’assoluto immobilismo della sua situazione politica, della quale si lamenta (neanche troppo) e poi non crede nel suo diritto di manifestare il dissenso. Il tacere che infondo assolve e lascia passare le brutture, poiché altrimenti le dovrebbe affrontare. Un popolo che tace dinanzi al proprio terreno malato, produttore di frutti avvelenati, causa di morti infantili in crescita; che tace dinanzi alle case costruite con materiali tossici, alle strade dissestate, all’inadempienza della politica, alla disoccupazione, a piccole imprese in fallimento, a tassi d’interesse altissimi, alle falde acquifere sporche, assenza di fruizione della cultura e creazione di pensiero critico attraverso l’istruzione, chiusura dei teatri e taglio a ogni tipo di fondi per il miglioramento della vita. Eccetera.
È questa la più grande menzogna, quella che diciamo a noi stessi e che giustifichiamo con milioni e milioni di parole. Dove invece la verità segue il suo solito gioco: tacere. Resta in silenzio. E neanche ci interessa cercarla perché, come sempre, essa fa paura, si teme.
Noi preferiamo il silenzio, ma non quello dell’essere, no: il nostro, quello che è un semplice tacere per fingere di non-comunicare, di non prender parte alla distruzione, ma che invece assolve e collabora a stretto braccio con le bugie e le menzogne dei fiumi di parole.
A ben vedere, il silenzio, il taciuto, è molto più eloquente del caos creato dalle parole. Quel silenzio che tenta di farsi concepire come non-essere, quella strana idea che abbiamo di esso, è solo un’altra menzogna: un altro fiume di parole e considerazioni per non guardarci allo specchio e raccontarci la triste verità. Muti, nel rivelatore silenzio, dove tutto – tutto – sarebbe troppo assordante.