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“Venere in pelliccia”: la guerra dei sessi nel teatro della vita

urldi Marco Chiappetta

TRAMA: Stressato e insoddisfatto per non aver trovato l’attrice per il suo prossimo spettacolo teatrale, l’adattamento di “Venere in pelliccia” di Leopold Sacher-Masoch, il regista Thomas (Mathieu Amalric) si appresta a lasciare il teatro quando vi piomba, tempestosa e incontenibile, la volgarissima e stupida Vanda (Emmanuelle Seigner), attrice mancata che chiede un’audizione. Cedendo all’insistenza della donna per levarsela di torno, Thomas è sorpreso di scoprire un’attrice straordinaria, ma non solo, nel provare e nel recitare la piéce su un palcoscenico, soli con se stessi, i  concetti di realtà e finizione, di uomo e donna, di servo e padrone si mischiano fino a degenerare.
GIUDIZIO: Tratto dalla piéce di David Ives, a sua volta ispirato al romanzo erotico (1870) di Leopold Sacher-Masoch (da cui proviene il termine masochismo), è dopo lo strepitoso “Carnage” un adeguato continuum di Roman Polanski, che adatta e si adatta al teatro, usando la pratica dell’huis clos che imprigiona dei personaggi in un ambiente asfittico di quattro mura senza uscita, costringendoli a confrontarsi e a togliere la maschera. Psicologicamente e verbalmente ricchissimo, intelligente e spesso pungente, questo divertissement del regista polacco indaga sui rapporti tra uomo e donna, sulle relazioni di presunto potere e sudditanza nell’amore come nella perversione, su un gioco e una guerra di sessi che trova nella tentazione erotica, nel masochismo, e sì, anche nell’arte, uno strumento di analisi e scoperta. Impressionante, grazie anche a due soli attori straordinari e magnetici e a una regia impercettibile ma attenta, questo mélange di arte e vita, vero e faceto, improvvisazione e ispirazione, che si svela e si compie su un palcoscenico che è metafora e specchio di un’anima traumatica bisognosa di terapia. Polanski scova così le possibilità catartiche del teatro e della recitazione, con un autentico monumento all’arte dell’attore. Convince meno il suo femminismo di base, forzato e un po’ facile  – un sessismo, dopotutto, non diverso e non migliore di quello dello stereotipato intellettuale megalomane e “macho” – e le sue conclusioni sono forse degenerate e deliranti, divertenti sì, ma anche lievemente pretenziose e concettuali. Un gioco comunque di grande spessore intellettuale, godibilissimo, schiavo forse di un meccanismo unicamente verbale e di una scrittura troppo letteraria, che tuttavia ne fanno un esempio perfetto di meta-teatro filmato.
VOTO: 3/5