di Mattia Papa
Si sa, c’è crisi. Non ce ne possiamo dimenticare: essa è dinanzi ai nostri occhi. Forte, senza scrupoli, intimidatoria. Analizzare in un solo articolo i modi in cui la crisi si manifesta, ritrovarne le radici profonde ed indagare il suo crescere e logorare quanto le è intorno, è impossibile. Non basterebbero volumi e volumi di libri. Una cosa è certa: nel nostro tempo, qualunque sia l’analisi, essa è sempre – se ne può esser certi – un’analisi della crisi che ci attraversa, che parte o che ad essa arriva. Siamo in crisi.
La crisi c’è, è tra di noi. Nascondersi non serve. Serpeggia per le strade che attraversiamo, ci osserva, ci governa, ci tiene compagnia durante le attese alla cassa o alla posta, sotto la fermata dell’autobus. Ci stringe la mano con la sua, gelida e mortale. Ci abbraccia in una morsa asfissiante. Ed è paradossale pensare che proprio un prodotto umano quale la crisi stessa è – poiché creata dalla rottura del sistema da noi stessi fondato – ci comandi dall’alto e ci faccia sentire vittime dell’ira di un Dio in procinto di scagliare l’ultima fatale sentenza.
Soggiogati, appiattiti, inutili. Immobilizzati. È questo lo status della gran parte della popolazione mondiale, decisa ad arrendersi all’inarrestabile e incontrollabile fluire della crisi, nostra signora e padrona.
Crisi ovunque: nella cultura, nell’arte, nel cinema, nei valori, nell’economia. E si può davvero oggi parlare di altro – a meno che non si voglia vivere nel passato – se non della crisi? Essa permea tutto. E anche il modo in cui si risolverà (o non), sempre avrà come partenza il grande declino che stiamo vivendo.
In una crisi nasce uno squilibrio tra quelle forze che muovono la struttura su cui si fonda la nostra società. Lo squilibrio, poi, può essere affrontato o dimostrando la rottura avvenuta tra le forze strutturali che sostengono la società (ossia l’insieme di sovrastrutture: politica, cultura, religione, arte, diritto, etc.) – agendo poi conseguentemente al necessario rivoluzionamento dei rapporti interni della struttura – o attraverso il tentativo di sanare la rottura, di fatto conservando il sistema ormai in collisione con se stesso.
C’è infatti da dire che manifestandosi, una crisi, per quanto ci si possa illudere di risolverla più e più volte trovando palliativi d’occasione, essa si ri-manifesterà nella sua pienezza poiché il problema sussiste – nella sua insanabilità – ed è al di sotto di soluzioni sovrastrutturali, ossia – nel nostro caso – politiche.
Che non si speri, quindi, che manovre finanziarie, tagli e tasse siano la risoluzione alla crisi attuale. Non si creda che il rilancio di un certo tipo di cultura, una nuova forma d’arte o – perché no, anche nel tempo della morte di Dio – una nuova religione o (meglio) un nuovo tipo di predicazione di una religione già vecchia, possa di colpo risanare un dislivello tale che coinvolge così tante e arzigogolate maglie sociali (tutte), sempre più complesse e patologiche personalità e individui ai confini con le macchine, egoismi e sprechi. Non si creda che arrendersi e fare un passo indietro, significhi tornare indietro nel tempo: ciò che si è diventati non si cambia. Si può bensì mutare il proprio approccio e tentare, nel corso di molti e molti anni, di potersi ritrovare, o forse semplicemente essere più onesti con se stessi e smettere di ingannarsi.
Non si creda, soprattutto, che cambiare segretario del Pd o premier, scindersi da Berlusconi o rimanere con lui, possa effettivamente dare nuovo viso alle cose. Credere che un Renzi o un Cuperlo qualsiasi possano fare la differenza, quando sono tutti più o meno della stessa pasta, da secoli. Ma soprattutto – soprattutto – che esista (e che sia davvero mai esistita) al mondo una vera sinistra, pronta a dimostrare che la rottura è insanabile e che si impegni a trovare il modo di comprendere la struttura e di ridarle un soffio vitale diverso. L’umanità – per paura – è di fondo destrorsa, conservatrice.
Bisognerebbe tornare alla vita, quella vera. Avere il coraggio di guardarsi allo specchio. E – perché no? – essere ciò che si è.
Perché no? Perché “ci vuole tanto, troppo coraggio”, come cantava De Andrè. Ed è più facile vivere da ignavi, che ricordarci dell’Ulisse dantesco quando dice: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Anche su di noi, il mare si richiuderà. Ma noi non gireremo tre volte e poi una quarta, prima che il mare ci sommerga abbattendo i nostri visi impavidi che fino all’ultimo respiro desiderano rimaner aperti. No. Noi ci siamo arresi. Ci siamo tappati il naso, abbiamo chiuso gli occhi, e poi ci siamo legati ad un grande scoglio sottacqua, nella speranza – o sì, lo speriamo tanto – di annegare.