di Mattia Papa
“Dio è morto”, forse. Se non si guarda all’aspetto canonico dell’affermazione nietzschiana che proclama la morte di Dio come fine del grande auto-inganno della cultura dell’Occidente, ma ci si focalizza su quanto ancora l’influenza cristiano-cattollica sia fondamentale nella temperie sociale e nella costituzione del nostro stesso stare al mondo, sorgono dubbi sull’effettivo stato cagionevole della divinità. Che poi l’influenza di Dio sull’umanità riguardi l’elaborazione del lutto e la mancata accettazione della sua morte, o che effettivamente non si creda nella morte di Dio nella sicurezza della sua resurrezione, è altra questione. Sta di fatto che Dio – religioso o meno che sia chi legge questo articolo – ancora c’è e che, in un certo senso, è tutt’altro che morto.
La grande intuizione del cristianesimo – prima ancora dell’islamismo – fu quella di eternizzare i momenti della vita di Cristo e degli altri profeti, ponendo nel Nuovo Testamento gli avvenimenti che hanno reso immobile e impossibile la vita dell’uomo. Dando alla nascita, alla morte e alla resurrezione di Gesù di Nazareth il carattere di eternità e soprattutto di irripetibilità dell’Evento, si è bloccato lo sforzo che muove la storia dell’umanità dando uno sfondo ormai così strettamente legato alla nostra stessa formazione e crescita personale, da non poterne più prescindere, sia che si creda, sia che non. Risulta allora impossibile poter pensare che vi sia al mondo un Evento in cui credere, per cui attendere, per cui battersi e costruire, affinché si raggiunga, detto in poche parole, la costruzione del Nuovo e non la reiterazione dell’eterno vecchio. Tutto è ingabbiato nel suo progresso (perlopiù scientifico, oggi) teleologicamente o naturalisticamente inteso, lì dove le due concezioni, nella vulgata, spesso coincidono nella volontà e nel fine divino.
L’umanità non conosce l’irruzione dell’avvenimento nel susseguirsi del tempo, vivendolo come l’assurdo poiché impossibile è ciò che non ha causa: non riconosce ovvero il discontinuo come atto effettivo della realtà, poiché questo implicherebbe la rottura nel corso della creazione e del mantenimento della totalità nonché dell’affermazione dell’assoluto. Altro è riconoscere poi la finalità utilitaristica consegnata alle cose così come la propria causa genetica: altro è quindi dal vivere in funzione di un concatenarsi di inevitabili momenti per grazia di Dio.
Si preferisce “glorificare l’origine” – scrive Nietzsche in “Umano, troppo umano” – ossia glorificare “il germoglio metafisico che rispunta nella considerazione della storia e che fa ogni volta credere che al principio di tutte le cose si trovi il più perfetto e il più essenziale”. Così l’umanità ricade nell’inganno perenne della sua storia, rivivendo l’Evento di tutta la vita di Cristo lungo tutto l’anno come unico ed irripetibile avvenimento (quindi Evento) e ragionevole spiegazione del corso della storia. In poche parole, che si sia o meno credenti in Cristo, si continua pur sempre ad essere cristiani.
Se la cultura Occidentale – ossia quella schiera di pensatori e di intellettuali che ormai da più di un secolo ragionano sulla morte di Dio come approdo finale della modernità, analizzando i risvolti sociali causati e la perdita di valori (o di assunzione di libertà?) ormai divenuti strutturali nella società contemporanea – se questi uomini, dicevo, hanno ormai dato per assodato la fine (nietzschianamente intesa) di Dio e il cambiamento di rotta nella considerazione della storia, essi non hanno considerato la capillarità con cui l’avverarsi di un nuovo Evento sia compromessa dalla sopravvalutazione dell’annunciazione della morte di Dio, poiché non si sopperisce all’ignoranza riguardo la sfilza di considerazioni appena compiute sulla storia, sulle quali i più sono assolutamente allo scuro poiché probabilmente queste basterebbero per incendiare il petto delle nuove generazioni ed indirizzarle verso il Nuovo e verso il vivere la vita nella sua pienezza, invece di lasciarla appiattire su falsi modelli di libertà e di cultura alienanti. Ma d’altronde è terribilmente subdola la forza del Potere, la quale controlla senza controllare, che ingabbia sempre più ogni volta che sembra ti lasci andare.
E quindi il Natale, la Pasqua e le feste di paese insieme alla cultura della metafisica del Bene assoluto natalizio e del “dimentichiamoci i problemi poiché oggi nasce Gesù”. Le recite nella grotta, i canti e le ferie. Gli alberi, gli addobbi, i presepi, le luci. Specchietti per le allodole. Poiché solo per qualche giorno all’anno si rincara la dose di assuefazione così che tutto sembri felice, così da potersi prendere ancora in giro, ma con il sorriso, con la speranza, con i disorientanti regali. E invece si sta solo girando ancora più forte su se stessi, fino al punto in cui nulla si vede più. Il bambino che nasce e che toglie i peccati dal mondo: quale maggiore inganno? Quale maggiore assuefazione? Per dimenticare, per dimenticarsi. Per dimenticarci almeno una volta all’anno di quanto massacrante sia l’essere schiavi di quei pochi inetti che muovono le fila dell’economia, padrona del mondo. Per credere ancora di vivere. Per ingannarci ancora un po’.
Il Natale giunse solo una volta. Non torna più. Purtroppo non perché giunse per l’umanità il superamento eroico delle proprie insicurezze. Il Natale più non torna, perché mai, in verità, se ne è andato via.