di Marco Chiappetta
TRAMA: 1841 – Rispettabile borghese, affermato violinista e affettuoso padre di famiglia di New York, il nero Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) viene rapito con l’inganno e venduto come schiavo in Louisiana. Sotto il nome di Platt, cambiando proprietà dall’umano Ford (Benedict Cumberbatch) al ferocissimo Epps (Michael Fassbender), attraverso una serie atroce di torture e aberrazioni, Solomon capisce che l’unico modo per sognare la libertà è resistere e cooperare.
GIUDIZIO: Terzo film di Steve McQueen, è tanto diverso dai precedenti quanto riconducibile alla stessa poetica cinematografica: la prigionia – che in “Hunger” era quella letterale, fisica delle carceri nordirlandesi, e in “Shame” quella mentale, perversa della mania sessuale – anche qui è un pretesto per un’analisi della natura umana, nei suoi estremi, nelle sue vette di umanità e nei suoi abissi di abominio. Londinese, e con un approccio artistico intellettuale ed europeo, McQueen parla della storia americana e del dramma vissuto dalla sua etnia con un affetto e una compartecipazione che molti registi (afro)americani non avrebbero avuto. Tratto dalla storia vera che il vero Solomon Northup traspose per iscritto, una volta libero, è un romanzo visivo, fatto di diversi capitoli, tanti personaggi, uno sviluppo narrativo ricco e coinvolgente, un’odissea con tutti i caratteri del mito e della tragedia: eroe, antagonisti, co-protagonisti deus ex machina, catarsi, morale. Proprio di una forza morale inaudita si muove il film. Parlando di un capitolo storico nero, ricostruito peraltro con perfezione, il senso del film va al di là dell’affresco e dell’epopea, ma si fa esperienza fisica, psicologica, visiva che permette allo spettatore di immedesimarsi, indignarsi, commuoversi, vivere e soffrire. Tutta la perversione, la malvagità, l’aberrazione di questo itinerario infernale è combattuto, compensato dagli scampoli di coraggio, gentilezza, umanità, enorme dignità che traspaiono dallo sguardo magnifico di Chiwetel Ejiofor. La bellezza del film, come dei grandi film, è il suo equilibrio tra brutalità e dolcezza, pietà e abbrutimento, speranza e orrore.
Lo stile di McQueen, fatto di primi piani o piani americani di fissa interminabile lunghezza, piano-sequenza di grande realismo e maestosi silenzi, permette agli attori e ai paesaggi di dare il meglio del loro potenziale emotivo. Composto come una serie di quadri, netti, puliti, plastici, dove dentro c’è già ogni informazione e ogni emozione (per la gioia di André Bazin e della sua teoria del “montage interdit”), il suo è un film necessario per quello che racconta e come lo racconta. Steve McQueen sa perfettamente quanto deve durare un’inquadratura, quando c’è bisogno della musica (struggente, di Hans Zimmer) o del silenzio o dei rumori di vita (respiri, battiti, grida), e anche questa è la sua maestria. Tutto è al suo posto. Ci troviamo davanti a un capolavoro che non sarà dimenticato.
VOTO: 4/5