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Quando la cultura della memoria diventa necessaria

1abe9f9f8d6f973575dfdd041ff785c45057571042e17di Roberto P. Ormanni

“Boia chi molla, presidente Boldrini! Boia chi molla, e noi non molleremo fino alla fine”. Con queste parole, lo scorso 29 Gennaio, Angelo Tofalo, deputato del Movimento 5 Stelle, ha concluso il suo intervento tra i bachi della Camera di Montecitorio.
Immediata è arrivata la reazione (indignata) dell’opinione pubblica del web, che ha chiesto al Tofalo di abiurare quelle parole dall’eco fascista. Il deputato 5 Stelle, tuttavia, si è difeso rispondendo tramite i social: “Si tratta di un’espressione diventata famosa come un motto fascista; tuttavia fu coniata da Eleonora Pimentel Fonseca durante le barricate della Repubblica Partenopea nel 1799 e utilizzata anche nelle Cinque giornate di Milano del 1848”.

Un encomiabile spirito dedito all’opera filologica, quello del deputato Tofalo.
Mi permetto di ottimizzare questo recupero storico-linguistico suggerendo degli spunti per i prossimi interventi.

Inizierei riappuntando sulle nostre giacche la sempre acconcia croce celtica. Emblema fascista e di estrema destra? Non sia mai detto. Semplicemente simbolo solare della popolazione dei Celti, che vuole rappresentare il collegamento tra mondo terreno e mono celeste.
Alla croce affiancherei la svastica. E a quelli che valutassero la scelta di cattivo gusto, spiegherei che quel segno non è nient’altro che una croce greca con i bracci piegati ad angoli retti. In sanscrito, infatti, “Svastika” è traducibile letteralmente come “piccola cosa in relazione allo star bene” e rappresenta un “bardo che dà il benvenuto”. Insomma: un marchio propiziatorio, un portafortuna.
Dipoi, saluterei i miei camerati e camerate (intendo colleghi di lavoro, naturalmente) con il braccio destro steso in avanti verso l’alto, mano tesa ed aperta, volto fiero se è possibile. Un saluto romano, con il quale vorrei trasmettere l’originario influsso benefico. Un gesto di pace ed inoffensivo, “un saluto al cielo, alle altezze e al sole; simbolo della vittoria della luce e del bene”, utilizzando le parole di Corneliu Zelea Codreanu. E a proposito di romanità, come stemma da affiggere sarebbe gradevole riportare ad uso un’aquila (simbolo sacro di Giove) che mantiene un fascio littorio (senza alcuna capziosità, rimanderei solo e soltanto ai fasci di bastoni di legno, legati con strisce di cuoio intorno ad un’ascia, portati dai littori nell’Antica Roma).
Infine, brinderei all’ardimento ritrovato con il grido “A Noi!”. Ispirandomi, invero, ai versi latini “propinate nobis similibusque (“brindiamo a noi e a quelli come noi”).
In alternativa, per i più baldanzosi, potrei proporre lo slogan “Eia! Eia! Alalà!”. E anche in questo caso, avverto subito i maldicenti, non si tratterebbe di malinconia seppiata: Alalà era il grido di battaglia degli opliti greci ed Eia era l’incitamento con cui Alessandro Magno cavalcava il suo Bucefalo. Filellenismo, dunque; tutto qui.

Eppure, al di là delle parole e dei motti, al di là delle provocazioni e delle regole del buon gusto, ci sarebbe un’apologia (mai vietata, questa, ma spesso evitata) che andrebbe rieducata ed è l’apologia della memoria.