Riportiamo qui di seguito la testimonianza, il racconto, la riflessione, di uno studente iscritto alla facoltà di Architettura presso l’Università degli Studi di Firenze.
di Alessio Giannini
FIRENZE – Non fumo, ma resisto al fastidio dell’aria ormai densa, che mi brucia gli occhi e che aleggia scomposta sopra le nostre teste. Siamo seduti a terra di un corridoio della Facoltà di Lettere di Firenze, palese esempio di cosa voglia dire degrado dell’università italiana, strutture vecchie e mancati investimenti. Uno pensa che a Firenze, visto un trascorso e una tradizione così gloriosa della lingua e la letteratura Italiana, ci sia il fiore all’occhiello della preparazione letteraria italiana, ma se uno dovesse giudicare al primo impatto, al primo sguardo, la sede in via Brunelleschi, potrebbe pensare di essere finito in una casa occupata, un centro sociale. Mi sono intrufolato e mi sento come in territorio nemico, quello che definisco un limbo antipolitico sulla soglia sottilissima a metà tra l’essere ignavi e veramente indignati. Mi presento come uno studente universitario di Architettura – e in effetti lo sono – ma preciso: “del Collettivo di Architettura” – ma non è vero. Essere un Giovane Democratico, nel limbo, non è essere visti molto volentieri: non sei preso sul serio, non sei un vero ribelle. E’ come se avessi interiorizzato il grigio dei capelli di Bersani ai loro occhi. Intorno a me ci sono più studenti di vari licei e istituti superiori, ma vedo anche altri universitari intrufolati, forse curiosi, forse nostalgici, forse sentono la responsabilità di dispensare qualche saggio suggerimento, qualche trucco del “mestiere dell’okkupante” dato dall’esperienza.
L’assemblea in questione è la “Rete dei Collettivi” delle scuole superiori, che per qualche assurdo motivo si ritrova alla Facoltà di Lettere, che effettivamente fa entrare tutti indistintamente e di questo non riesco a capacitarmi. Si temporeggia – potrei usare l’espressione “perdere tempo”, ma finché è ottobre e non si hanno compiti, nessuno sente l’urgenza del tempo che scorre – ognuno è intento nel proprio piccolo affare immediato: uno col proprio MACBOOK, l’altro girandosi una cartina. Nel mio “curriculum scolae” posso menzionare due occupazioni per cui in entrambi casi ho difeso l’opzione “autogestione con piattaforma programmatica”, ahimè, già vittima del politichese e delle tante sconfitte elettorali della Sinistra italiana, infatti tutte e due le volte la mia scuola occupò senza sentire “se” e “ma”, “probabilmente” o “vedrete che…” di sorta. I miei interventi su quanto fossero obsolete, superate, antistoriche e inconcludenti come forma di protesta sono sfumate nel loro eco della palestra di scuola. L’unico modo per mantenere alta l’attenzione ad una qualsiasi assemblea durante un’occupazione che fosse efficace, subito dopo la minaccia, era l’uso del terrore: “tu biondino laggiù… sì tu, dicci un po’ che dice la legge 133 che sono 20 minuti che mi sgolo per spiegartela?”.
Questa volta ho ascoltato, da una parte, col fumo che mi faceva bruciare gli occhi e che rendeva irrespirabile l’aria di quel corridoio da casa occupata e come ogni anno mi sorgeva spontanea la stessa domanda esistenziale: “ma qual è l’obiettivo di questa protesta?”. Il problema è che la protesta, da strumento diviene il fine. Diventa la piena realizzazione di una volontà di contrapposizione al mondo adulto, una protesta generazionale che in fin dei conti potrebbe essere anche utile per farsi le ossa alla vita, uno potrebbe dire. Ma c’è qualcosa che va ben oltre, nelle loro parole colgo una grave stortura evidente, un malessere più profondo e radicato nelle coscienze, molto di più dei tagli o della “legge qualenumero”. Parlavano di occupare uno dei punti nevralgici della viabilità pubblica fiorentina: Piazza San Marco. Mi pareva evidente l’illegalità dell’occupazione di suolo pubblico, oltre che il disagio conseguente per una folta schiera di lavoratori, tanto onesti da andare a lavoro in bus, che a casa ha famiglie e magari contratti a progetto in aziende sull’orlo della crisi. Ma no, per loro era normale, era uno sciopero che doveva creare disagio, certo, anche gli studenti scioperano – non ho avuto la voglia, e nessuno come me, di far notare il nonsenso di questa affermazione. Poi sono esploso: “Ma un semplice volantinaggio in cui scrivete e informate lavoratori, turisti, passanti, pensionati diretti a poste e supermercati, non è sufficiente per raggiungere l’obiettivo?” Già: obiettivo. “Credo che sia nostro interesse informare più persone possibili in modo che alle prossime elezioni capiscano che questa situazione stagnante della scuola pubblica ha un padre e una madre, bisogna mandare a casa Berlusconi e compagnia “bella” e credere, votare e far votare partiti d’opposizione che investano in Cultura e Ricerca!”.
Il 2012, l’apocalisse, si è avvicinato di colpo. “Ma questa non è la sede per parlare di politica, qui stiamo discutendo come dobbiamo protestare noi!” “E chi dobbiamo votare?! Sono tutti uguali, destra e sinistra, hanno tagliato tutti! Fanno schifo tutti! Qui siamo tutti antipolitici!”.
Ho riflettuto a lungo. Forse neanche se leggessero i giornali tutti i giorni e fossero realmente informati crederebbero ancora nella politica, ma la cosa grave è che non vedono proprio nell’attuale sistema democratico rappresentativo di alternanza partitica una soluzione ai problemi del paese. C’è un’intera generazione “incivile”, che si è incattivita a causa di una politica incancrenita da vent’anni su una dialettica berlusconiana o antiberlusconiana, e la fazione anti berlusconiana non è stata capace di annientare l’avversario politico, che ha precedenti solo al duce, per potere, carisma e scrupoli, ma non per risultati. Per questo l’opposizione appare debole, depressa, inferiore.
Il problema è che questa classe politica è non solo distante dalla realtà, ma dai giovani e i loro bisogni, e soprattutto dall’esigenza di futuro, di prospettive, di speranza. Solo allegre civette possono rimanere ammaliate dagli eterni spottoni pidiellini, dai team della libertà, dalle belle donne dai tacchi alti, dall’umorismo da bar, dal machismo latino, dall’idolo del self-made men: esemplare dell’espansione illimitata e irresponsabile, ma tanto fruttuosa dell’Italia del boom.
E’ l’ipocrisia la falsità, la mancanza di ogni valore etico che ha finito per dimostrare che la politica non poteva essere un obiettivo da seguire, un modello entro cui riconoscersi per provare ad immaginare un paese da amare e migliorare.
Questa politica ha prodotto una generazione sfiduciata nella democrazia e i suoi strumenti per difenderla e applicarla tutti i giorni: mi viene da immaginare che si prospettano tempi ancora più bui di questi.