di Gabriella Valente
Economista e funzionario brasiliano, dal 1968 al 1969, presso il Ministero delle Finanze. A partire dagli anni ’70 si trasferisce a Londra, dove lavora per l’Organizzazione Internazionale de Caffè. Ed è qui, tramite quest’istituzione, che scopre i problemi dell’Africa. Sebastião Salgado, così, comincia a fotografare per raccontare.
Collaborando con l’agenzia Sygma, si dedica al reportage sociale in Portogallo e Mozambico. Tuttavia, la sua vocazione è un’altra.
Non basta raccontare la realtà sociale partendo dall’attualità immediata, il tipo di reportage a cui lui aspira è di differente natura. Una sola immagine non è sufficiente a raccontare il dramma del presente. Andando oltre ogni aneddotica, Salgado articola invece un racconto tramite una serie di immagini, dopo aver indagato a lungo sul campo. A partire dal 1979, collabora quindi con l’agenzia Magnum, e comincia ad analizzare la situazione drammatica dei contadini del continente latino americano.
Il reportage fotografico diviene, per Salgado, ricerca estetica e allo stesso tempo ricerca di senso. Le immagini possono (e devono) andare al di là del semplice valore illustrativo ed aneddotico. Quelle unità semantiche, attraverso la ricerca estetica, devono colpire lo spettatore, invitandolo a pensare e a riflettere.
Nel 1984 Salgado, partecipa ad un’iniziativa promossa dai Medici senza Frontiere, in Sahel, una zona dell’Africa devastata dalla carestia e dalla fame. Per diciotto mesi realizza un reportage, in Mali, Etiopia, Ciad e Sudan.
Masse di profughi che scappano dalla fame, dalla carestia e dalla guerra, ricordano inevitabilmente la biblica fuga in Egitto, donando alle immagini un’aura quasi religiosa.
In tutta la loro struggente bellezza, le immagini si mostrano come rivelazione, dispiegano il loro senso andando oltre la semplice informazione.
Mettono a nudo tutta la miseria, tutta la sofferenza che pesa sulle spalle di quegli esodati.
Queste fotografie vogliono avere la funzione di risvegliare le coscienze, sensibilizzare oltre che informare gli “abitanti” dei paesi ricchi. Rappresentare attraverso la bellezza formale, la fame che devasta e costringe una popolazione alla miseria e alla fuga, permette di andare oltre la semplice condanna sociale ed questo quello che Salgado mette in pratica con il suo racconto fotografico.
La rappresentazione fotografica della fame, diviene, grazie a Salgado, l’imperativo morale che spinge l’uomo occidentale ad aprirsi all’altro e guardare al vincolo della responsabilità nei confronti dell’umanità che troppo spesso viene dimenticato. Di certo nessuna foto può, da sola, cambiare le cose, risolvere il problema della fame del mondo.
Eppure, un racconto fotografico come quello presentato da Salgado, non una semplice registrazione di un fatto ma un’indagine antropologica e sociale durata per tutti i diciotto mesi di permanenza, può essere un tramite morale di grande impatto e sensibilizzazione.
Estetica e politica, fotografia e umanità, elementi perennemente a confronto: “Quando ho iniziato a occuparmi di fotografia – racconta il fotografo brasiliano – sentivo di non avere limiti. Volevo andare ovunque la mia curiosità mi portasse e dove la bellezza mi suscitasse emozioni, ma anche ovunque ci fosse ingiustizia sociale, per raccontarla, al meglio”.
Raccontare le ingiustizie, le miserie umane per far pensare il mondo. Emozionarsi ad ogni scatto per emozionare colui che ammira quel frammento di tempo stampato. Questa è la missione di Sebastião Salgado.