Quello straordinario capolavoro artistico e concettuale che è la Repubblica di Platone si apre con una discussione sulla giustizia, basata sulla domanda, assillante per l’uomo di ogni tempo, su cosa essa sia realmente. Già questo dovrebbe dare l’idea di quanto attuale sia un testo del genere in un tempo in cui la parola “giustizia” è sulla bocca di tutti, al centro dei dibattiti televisivi, perennemente in cima all’agenda della politica. Una parola che viene ogni giorno abusata, distorta, strumentalizzata, piegata a significati che non le appartengono. Particolarmente pregnante per l’oggi risulta anche l’accezione negativa espressa da Glaucone, fratello di Platone, fra i protagonisti del dialogo:
Ci renderemmo conto perfettamente che anche chi la pratica lo fa contro voglia, per l’impossibilità di commettere ingiustizia, se immaginassimo una prova come questa: dare a ciascuno dei due, al giusto e all’ingiusto, la facoltà di fare ciò che vuole, e poi seguirli osservando dove li condurrà il loro desiderio. Allora coglieremmo sul fatto il giusto a battere la stessa strada dell’ingiusto per spirito di soperchieria, cosa che ogni natura è portata a perseguire come un bene, mentre la legge la devia a forza a onorare l’uguaglianza.
Il comportamento giusto è proprio di chi è impossibilitato a compiere il male perché costretto dalla legge, mentre la sua natura, come quella di tutti gli uomini, sarebbe votata all’ingiustizia. Echi di questo radicale pessimismo antropologico si ritroveranno nella celebre massima di Hobbes per cui “l’uomo è lupo per l’uomo”. Ma, prescindendo dalla condivisibilità di questa visione dell’uomo, quel che è importante notare in questo passo è il ruolo che viene assegnato alla legge. È la legge ad impedire all’uomo di dare sfogo alla sua vera natura. La sua è una funzione di controllo degli istinti umani. È quanto riconosceva già l’antichità quando, con il sofista Licofrone, affermava che “la legge garantisce la reciprocità dei diritti, ma non è capace di rendere buoni e giusti i cittadini”. E, secondo un altro sofista, Antifonte, “l’individuo applicherà nel modo a lui più vantaggioso la giustizia, se farà gran conto delle leggi di fronte a testimoni; ma in assenza di testimoni, seguirà piuttosto le norme di natura”. Nel dialogo platonico il solito Glaucone addirittura afferma che, se pubblicamente conviene ostentare un comportamento giusto, senza dubbio nel privato vale la pena di essere ingiusti. Una simile affermazione la rafforza ricorrendo, come accade di frequente nei testi platonici, alla potente carica espressiva del mito.
Viene raccontata la storia di Gige, pastore della Lidia, che un giorno, mentre sta pascolando il proprio gregge, trova un anello che si rivela capace di rendere invisibile colui che lo porta al dito. Forte di un simile potere, riesce ad inserirsi nell’ambiente di corte, a sedurre la regina e ad uccidere il re, così da impossessarsi del potere.
È l’invisibilità, dunque, che permette all’istinto di sopraffazione di superare anche l’ultima barriera, l’unica in grado di porre un argine al suo straripare, la legge appunto. È l’invisibilità che i “Gige” di ogni tempo cercheranno per poter agire indisturbati nell’arricchimento personale e nel rafforzamento del proprio potere. Pare che oggi questo antichissimo gingillo che è l’anello di Gige vada molto di moda, soprattutto in Italia. La particolare invisibilità che esso dona si chiama impunità. Impermeabilità, cioè, alle indagini della magistratura o alle inchieste della stampa. L’oggetto magico si cela oggi sotto nomi ammantati di legittimità costituzionale, del tipo “lodo” o “ddl”
Ma Platone, alla fine della sua opera, arriva a fondare la giustizia su presupposti assoluti, sottraendo in questo modo i criteri di deliberazione morale al condizionamento esteriore della considerazione pubblica e della stessa legge; così la coltre di invisibilità garantita al potere dall’anello di Gige è squarciata per sempre. Noi siamo in grado di fare qualcosa di simile?