Era il 1904 quando al Teatro d’Arte di Mosca fu portato in scena l’ultimo lavoro teatrale di Anton Čechov diretto da Stanislavskij, “Il giardino dei ciliegi”. Il drammaturgo russo, attraverso una commedia resa tragedia, testimoniava, poco prima di morire, la sofferenza del mutamento sociale, la decadenza di un’antica classe e il delinearsi di un nuovo sistema di valori.
Oggi Luca De Fusco, regista e direttore artistico del Napoli Teatro Festival Italia, si confronta, per la prima volta in ventisette anni di attività, con il teatro russo e lo fa sfruttando “l’intuizione antica – come racconta – che si possa leggere Cechov in modo mediterraneo”, trapiantando la proprietà e il giardino di Raniévskaia in un ambiente meridionale, nel Mezzogiorno del secolo scorso schiacciato dalla rivoluzione industriale.
Su una scena totalmente bianca e decadente, costruita con valentia da Maurizio Balò, si consuma la vicenda dell’aristocratica Ljuba (interpretata da Gaia Aprea, musa costante di De Fusco) e della sua famiglia: tornati da Parigi nell’antica tenuta, vengono infermati che, per pagare i debiti accumulati, la casa e il grande giardino dei ciliegi saranno messi all’asta in Agosto.
In questo conto alla rovescia di una fine annunciata, si muovono le storie del parentado, tra giochi d’amore, conflitti interiori e fantasmi da affrontare. Tutto calato in un contesto sociale definito eppure così assoluto: esemplificativa l’antinomia tra i due personaggi splendidamente interpretati di Tofimov (Giacinto Palmarini), studente marxista che teorizza una giustizia civile, e Firs (Enzo Turrin), vecchio servo rimasto fedele alla casa nonostante la possibilità di affrancamento. L’adattamento piuttosto fedele operato da Gianni Garrera acutizza la volontà di secolarizzare il testo inserendo nuove inflessioni napoletane alle battute dei personaggi (probabilmente, in questo senso, qualcosa in più poteva essere osato) ma conservando gli elementi di farsa immaginati da Cechov (basti pensare a Epichodov, contabile maldestro reso quasi fantozziano da Gabriele Saurio, o Sarlotta, governante faceta tedesca-napoletana ben colta da Sabrina Scuccimarra).
Il dramma si attorciglia inesorabilmente e la famiglia impotente preferisce ignorare la rovina, rifiutando l’offerta remunerativa di Lopachin (commerciante intraprendente interpretato dall’ottimo Claudio Palma) di trasformare il giardino in un complesso per villeggianti e continuando a vivere nell’illusione che niente stia cambiando. Tutto resta sospeso fino al compimento finale: mentre in città si svolge l’asta decisiva, nella casa viene allestita, con tanto di orchestra, una festa lussuosa. La chiave di volta della vicenda, così, viene rappresentata dal valzer di tutti i protagonisti (danzato sulle musiche di Ran Bagno e coreografato da Noa Wertheim), un gran ballo viscontiano che diventa canto del cigno, in cui ogni passo si muove tra speranza, tristezza, rabbia, passione e violenza. Un giro finale che si conclude con la notizia culminante: la proprietà è stata venduta, acquistata proprio da Lopachin, deciso ad abbattere i ciliegi per far posto ai lotti da affittare.
Ljuba, suo fratello Gaev (un Paolo Serra dannunziano) e l’intera famiglia scoprono allora la loro misera debolezza di fronte alla spietatezza dei “cani affamati”: il giardino, simbolo di una poetica innocenza, viene sopraffatto dalla Storia e Ljuba non puoi far altro che constatare la loro “inutilità”. E’ così che tra il piano scenico e il pubblico viene tirato su un muro, fatto di quelle stesse macerie che componevano la casa, rovine bianche che dividono il passato dal presente, ossa di un’esistenza distrutta che non si piega ad accettare la realtà.
Ma non è tutto. De Fusco sceglie di lasciare una crepa in questo muro, che prende le sembianze di una bocca pronta ad inghiottire per sempre quel mondo. E da quello spiraglio, ultimo attaccamento ostinato, si riesce a cogliere lo sguardo tenero di chi dà l’addio prima dell’estremo salto nel vuoto, nel buio.
L’armonia è perduta, la vita è finita, gli amori sono strappati, la stessa poesia del giardino dei ciliegi si estingue. E tra le mura pericolanti della casa, solo il vecchio servo Firs può restare, fantasma di se stesso, residuo di un mondo scomparso per sempre.
Home » Napoli Teatro Festival Italia 2014, News, Spettacolo, Teatro » NTFI 2014, “Il giardino dei ciliegi”: il Cechov mediterraneo di De Fusco racconta l’armonia perduta