Un incontro ancora più folgorante di quello con l’attacchino, pensò ore dopo. Ignorava ancora che avrebbe avuto delle bizzarre implicazioni, e si dimenticò presto di quel giovane bizzarro.
Nella fretta di prendere un bus qualsiasi, il giovane incappò in uno di quelli turistici, a due piani, che facevano il giro della città storica e che costavano un occhio della testa. A un primo momento non se ne era accorto, ma quando capì di essere il solo italiano sul tetto panoramico -del quale, del resto, ignorava l’esistenza, credendola una novità- e di essere in mezzo alla gittata delle macchine fotografiche dei giapponesi, quasi svenne al salasso che avrebbe subito, i pochi spiccioli che aveva servivano per andare al supermercato e rifornire il frigo sempre vuoto. Ma, constatato il fatto che avrebbe pagato comunque se fosse sceso alla prossima fermata, si rassegnò a fare il giro del centro storico, sebbene ne conoscesse ogni centimetro quadrato. Tirò fuori il taccuino, scosse una penna e buttò giù una stesura dell’articolo. Scrisse per tutto il giro, poi si accorse di non avere una foto del ragazzo. Si nascose per bene, confondendosi tra i turisti, mentre arrivava alla panchina, tirò fuori il cellulare e gli scattò due foto. Preparò malvolentieri i soldi e si apprestò a scendere alla prossima fermata, che era vicina a casa sua. Si precipitò per battere al computer quanto scritto e per mandare subito il pezzo al capo. Di lui non si seppe più nulla, ma di certo fece conoscere alla città la condizione di un ragazzo, seduto a una panchina, che aspetta invano una ragazza, che di nome fa Laura. Da anonimo com’era, divenne improvvisamente famosissimo.
Tutti si ricordarono, d’un tratto, di averlo visto. Qualcuno giurava e spergiurava di conoscerlo benissimo. Si tentò di dargli un’identità, e a questo ci pensarono dei sedicenti conoscenti, che al passare dei giorni sparavano sempre un nome e un’occupazione diversi. La cosa interessante era che la diffusione di una particolare ipotesi era appannaggio di un certo quartiere o di una certa parte della città. Così, se nella zona industriale si chiamava Antonio e lavorava alla catena di montaggio in uno stabilimento automobilistico, nel quartiere residenziale si chiamava Enea e era il rampollo di un impero nella cantieristica navale, mentre nella zona dei locali alla moda si chiamava Gabriele e faceva il vocalist, nel centro storico, dove stava il ragazzo, era chiamato Roberto e faceva il madonnaro. Ben presto le “fazioni” degenerarono in un dibattito violento, tanto che il sindaco fu costretto a vietare ogni discussione e decretò che fosse soprannominato “il ragazzo della panchina”. L’interessato, durante la diatriba, fu assediato dai fotografi, dalle troupe televisive, che lo accecavano con i flash e con le domande, di cui però si curava poco, non credendosi oggetto della pressione. Distoglieva lo sguardo dalle luci e ignorava apertamente le domande, con lo stoicismo che lo aveva caratterizzato nei mesi. Solo la domanda di uno dei giornalisti, “Che stai facendo qui?” sembrò interessarlo. Si scosse e guardò in viso il giornalista “Come ho già detto a molte altre persone: aspetto Laura!” si rivolse anche agli altri “E voi, campate male se sperate di strapparmi qualcosa, circondandomi come tante iene e accecandomi. Come avete visto, non ho problemi a sopportarvi e a ignorarvi. Quindi vi prego di andarvene e di lasciarmi in pace a aspettarla.” La filippica parve colpirli.
Questi continuarono ancora per un po’, poi lentamente lo lasciarono solo. La pressione fisica su di lui cedette, ma si poteva vedere in televisione e in riviste scandalistiche dei servizi riguardanti. La sua vicenda fece incuriosire molti e riflettere alcuni. In particolare, tutte le ragazze che si chiamavano Laura si misero in testa di essere quelle che lui attendeva. Si riunirono in un comitato, e in un pomeriggio d’autunno si organizzarono a mo’ di Cenerentola che ha perso la scarpetta di cristallo. Assoldarono dei bruti per preparare la serpentina di transenne, il recinto che le avrebbe contenute e per bloccare la strada da malintenzionati. Quell’anonimo angolo di strada si riempì in pochi minuti di brune, bionde, more, rosse, basse, alte, grasse, tarchiate e magre, tutte ansiose di vedere se il ragazzo stesse aspettando una di loro. Questi aveva seguito con interesse la preparazione: non aspettava altro da mesi. La transenna terminava proprio davanti a suoi piedi. Era quello che aveva fatto per mesi, solo che in quel momento era aiutato, per fortuna, da tutte le Laura della città. Il conto alla rovescia iniziò. Ad una ad una sfilarono come in passerella davanti a lui, che con un cenno d’assenso avrebbe trovato la sua Laura, per la gioia dell’interessata. Ma da subito emerse che non sarebbe stato semplice, un’ora era passata e il ragazzo aveva scartato già un migliaio di possibili Laura. La maggior parte delle rifiutate si abbandonavano a eccessi di tristezza o di ira, battevano i piedi e lanciavano imprecazioni contro il ragazzo, il quale imperterrito continuava a scandagliarle e dissentire, con una smorfia tra il dispiaciuto e il rifiuto.
La cosa andò avanti fino alla sera, e nell’anonimo angolo di strada ormai vuoto, il ragazzo vedeva le ultimissime Laura e le rifiutava. “E’ evidente che Laura non abita qui.” disse alla fine. Rimase solo, come sempre. Si dimenticarono di lui, con suo grande sollievo.
I giorni, i mesi passarono, sulle betulle ritornarono le foglie e sul capo sempre lindo del ragazzo ritornò il sole.
Un noto matematico, durante l’ubriacatura della città per lui, stimò sul milione di persone osservate dal ragazzo, a cui se ne aggiunse un altro durante questa stasi temporale. Il guizzo di speranza, quell’occhio leggermente spalancato di sorpresa non erano mai sbiaditi: messe a confronto due ipotetiche fotografie, ne era impossibile distinguere la progressione temporale, quale delle due fosse venuta prima. Migliaia di altre persone si erano avvicendate al suo fianco, ma mai nessuno, neanche le figure descritte nelle pagine precedenti fece più scalpore di questo strano individuo, alto, magro, dalla barba foltissima, dallo sguardo penetrante, che si sedeva vicino a lui, gli sussurrava qualcosa e se ne andava, per tornare quando più gli garbava, senza alcun preavviso. La cosa che più lo turbava non era tanto la modalità, ma quanto il contenuto dei fugaci messaggi che il tipo gli sussurrava.
“Non arriverà oggi, forse domani. Ha avuto un contrattempo.” La prima volta che si videro. Il ragazzo non batté ciglio.
“Il contrattempo è durato fintanto che era libera. Adesso deve lavorare. Forse domani.” Una settimana dopo.
“Non può, mi dispiace. Dopo il lavoro ha scoperto di aver vinto un viaggio, intorno al mondo. Forse domani” Un mese dopo. Intuì che forse stava parlando di lei.
“Non vorrei allarmarti, ma dopo il viaggio ha preso uno di quei brutti virus. Non si sa mai cosa nascondano quei maledetti cibi esotici. E’ malata, ne avrà per molto tempo, forse domani.” Un anno dopo. Questo messaggio lo scosse molto.
“Sta morendo. Ha avuto uno shock anafilattico. Sai, una di quelle malattie aviarie. Forse domani.” Un anno e tre settimane dopo. Il ragazzo non batté ciglio, vide un bus che portava alla zona ospedaliera e ci salì. Lo strano individuo se ne andò come il suo solito. Nessuno sedeva alla panchina in quell’angolo anonimo di strada.
Si avvicinò, basso e tarchiato, l’attacchino assoldato dall’azienda, con una nuova risma di fogli sotto il braccio e gli attrezzi appuntati sulla cintura. Sostituì il foglio ormai ingiallito con uno nuovo. Diceva “Riapertura della linea CavriaGodot con validità immediata” con un vistoso (o forse era voluto?) refuso tipografico. Se ne andò come era venuto.
Il bus suddetto fermò, con insolita puntualità. Da esso scese una donna non particolarmente bella, ma neanche sgradevole alla vista; non grossa di corporatura o statura, né magra e esile; gli abiti non suggerivano professioni o interessi specifici, una maglia a maniche lunghe nera, accompagnata da un pantalone e da scarpe da ginnastica, anch’esse nere. L’unica cosa che la caratterizzasse in qualche modo era l’età: non dimostrava più di venticinque anni.
“Deve essere in ritardo, tant’è vero che mi chiamo Laura. Pazienza, lo aspetterò qui”. Si sedette perfettamente composta, ma questa è un’altra storia.