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Due giorni con Tim Burton a Parigi

Tim Burton in Paris


foto di Marco Chiappetta
di Marco Chiappetta

PARIGI (FRANCIA) – Il cinema è nato a Parigi ed è giusto che vi rimanga. Fa il giro del mondo e ritorna nella sua culla capitale. Come il Mélies di Scorsese o i divi muti di “The Artist” freschi di Oscar, e come la mostra di e su Tim Burton, che dopo il MoMa di New York è sbarcata a Melbourne, Toronto e Los Angeles, e infine alla leggendaria Cinématheque Française di Parigi. Nel corso di più di mezzo secolo, varie sedi, varie vicissitudini, questo Partenone di celluloide, archivio megalomane e cinema unico al mondo, che ospita tutti i film e spesso tutti gli artisti in carne e ossa (negli ultimi mesi Nanni Moretti e Steven Spielberg), mostre, esposizioni, retrospettive, decine di film proiettati al giorno, biblioteche e videoteche immense come culture che nessuno ha, ci sono passati, prima studenti poi critici infine registi i vari Truffaut, Godard e compagnia della Nouvelle Vague, e una gloria successiva che l’ha resa leggenda: è il tempio massimo del cinema, dimenticate studios e accademie.
Occasione speciale ieri 4 marzo per pochi, pochissimi eletti, tra cui chi vi scrive: il vernissage della mostra di Tim Burton, inaugurata per i soci della Cinématheque, prima della sua apertura il 7. Qualcuno, attratto dall’idea che lo stesso Tim Burton firmasse il libro della mostra al ristorante adiacente, ha fatto una disperata fila di ore sotto la terribile pioggia tagliente e il freddo triste della domenica. Per un autografo e forse una foto, e un ricordo, qualcuno una porta in faccia e una delusione. Oggi 5 marzo nella leggendaria sala Henri Langlois ha avuto luogo la Master Class di Tim Burton, grande lezione di cinema di Tim davanti a una sala gremita, con tanto di ritrasmissione in diretta nelle sale accanto e sul sito Internet. Parliamone.
La mostra è eccezionale. Incanterà i cinefili, i curiosi e chiunque altro dal 7 marzo al 5 agosto: disegni, costumi originali e oggetti di scena dei film, sketch, sculture, pupazzi, primi cortometraggi, che il Genio ha costruito quando era solo un genio, ragazzino timido e introverso della suburbia americana (la Burbank californiana delle casette a schiera e del sempiterno nulla monotono di ogni giorno), poi appassionato studente d’arte, prodigioso disegnatore alla Disney, infine creatore di un universo cinematografico fantastico solo e ineguagliabile: una voce isolata del cinema moderno. La mostra, accompagnata in una penombra che ricorda i suoi film dalla musica in sottofondo del suo fedelissimo Danny Elfman, è un viaggio emozionante nella sua vita e nella sua mente visionaria: sogni, incubi, fantasie, meraviglie. Dai semplici disegnini di infanzia agli storyboard e schizzi dei suoi capolavori (persino, in esclusiva, pezzi del suo prossimo film “Dark Shadows”, in uscita a maggio, con Johnny Depp vampiro), videoclip musicali (quello di “Bones” dei Killers su tutti) e fotografie, si vede il percorso coerente e miracoloso di un piccolo sfigatello di provincia timido e infelice, umiliato da un’adolescenza sola e malinconica, fino al successo meritato, raggiunto con la passione e con l’esplosione di un genio assoluto e unico. Si capisce e si carpisce tutta la poetica che è dietro e dentro i suoi film: il fanciullino che piange e il Peter Pan dentro di lui attraverso il piccolo Charlie alla fabbrica di cioccolato, e giganti soli come Willy Wonka e Batman e Jack Skellington che hanno potere e fama ma non più gioia e gioventù, il sadico burlone sempre morto e sempre solo Beetlejuice e il maritino indeciso che ama un’altra, la bruttina sposa cadavere, e il povero Edward mani di forbice che nessuno capisce perché brutto e mutilato, il piccolo cupo Vincent che legge Poe e fa esperimenti sul cane per noia; Tim come Cappellaio Matto imprevedibile e anche artista macabro e violento come un barbiere assassino che trae dal male (la carne delle sue vittime, leggi la morte) il bene (pasticci ottimi, leggi l’arte), il cantastorie e cantafrottole di “Big Fish” e il regista appassionato (“Ed Wood”) che crede a tutto e in tutto, ama la sua passione anche oltre i suoi limiti e se ne frega di piacere agli altri; e i mondi fantastici cupi di cavalieri senza testa e improbabili invasioni marziane e incubi come pianeti delle scimmie, e morti, e fantasmi, o le case color pastello dei viali americani della sua giovinezza e oscurità ovunque, dentro, fuori, ma alla fine di tutto un amore per la vita e la bellezza che ricorda sempre chi c’è dietro la macchina da presa e i disegni folli: l’uomo dai brutti denti e capelli pazzi e occhiali strambi, ma anche sempre lui, il bimbo solo e pluri-sfottuto che pensava alla morte e agli incubi come antidoto a quel finto benessere in technicolor della scintillante e luccicante e scadente provinciola americana. La mostra mostra, appunto, Tim Burton com’è, Tim Burton uomo, Tim Burton artista: e per una rara volta le due facce coincidono, Tim Burton è coerente a sé stesso, è come i suoi film. Cupo, pazzo, delicato, ironico, malinconico, gentile, poetico, infine sorridente e gioioso. L’unica sua contraddizione è la sua ispirazione cinefila che va dall’alto (De Sica, Fellini, vecchia Hollywood, Walt Disney) al basso (Ed Wood, Roger Corman, B-movies, horror anni ’30), senza mai mancare il suo obiettivo (creare bellezza, emozionare, parlare dei suoi spettri) né scendere a compromessi: anche se è il regista più mainstream e più divo, ed è ormai un’icona, suo malgrado, anche di un certo frivolo consumismo. Come Johnny Depp è il suo alter ego nei film, negli incontri come quelli del 4 e 5 marzo alla Cinématheque lui è sembrato l’alter ego di Johnny Depp: una star simpatica e stilosa, che sorride a fan e stampa, e si fa attendere, anche dieci ore, per un autografo. C’è davvero, nella marmaglia che di domenica piovosa avvolge il 12° arrondissement di Parigi, varie centinaia di persone: fan, nerds, emo, fratelli metallo, cosplay vestiti come i personaggi dei suoi film, curiosi, cinefili, intellettuali. Fila di ore sin dall’alba, dalla Cinématheque fino alla fermata metro di Bercy (buono mezzo chilometro) per un autografo sul libro della mostra, una foto da mettere sul profilo di Facebook, qualche ricordo.

Dopo il vernissage, per me un salto e un saluto sono di dovere: per i soci abbonati fila a parte, un paio di minuti, ed eccomi là di fronte il maestro. Non ha molto tempo per ciascuno, e forse dopo due ore neanche voglia di guardare le facce a cui fa autografi, e come una macchinetta scrive sul libro e sorride all’obiettivo, la sicurezza fa il suo dovere, e tutto va stile catena di montaggio. La firma con dedica sul libro della mostra è d’obbligo anche per me, ma la gentilezza e il sorriso di Tim mi hanno spinto ad andare oltre: gli regalo dei miei cortometraggi, li accetta di buon grado, li mette da parte e sorridendo dice: grazie, li vedrò sicuro. Chissà, magari: stesso universo malinconico, l’infanzia, la paura, la solitudine, un che di fantastico, chissà potrebbero piacergli. Li vedrò, dice, thank you, thank you: fosse anche solo per la soddisfazione di vedere un mondo alla rovescia, in cui nella sua collezione dvd ci sono dei film fatti con cuore sangue e pochi soldi da un fesso dabbene a Napoli, sono felice. Gli dico: c’è indirizzo, numero, tutto, se vuoi scrivermi. Per cortesia o grandezza d’animo, con un sorriso squarciato enorme come quello del suo Jack Skellington, mi ringrazia ancora e mi tende la mano: gliel’ho stretta con calore, e ho pensato che nel mondo del cinema di cui sono un margine e una briciola, è un po’ come le dita di Dio e Adamo di Michelangelo, o, per rimanere nel mondo burtoniano, l’incontro in “Ed Wood” tra il peggiore regista di sempre e il mitico Orson Welles, e dalle stalle e alle stelle tutto il mondo è paese. La gentilezza non si compra, la si paga per sé a suon di sofferenze, batoste e piccoli trionfi, e la gloria, quando arriva, non cambia niente: parafrasando Massimo Troisi, il successo amplifica, se eri meschino prima diventi orribile, se eri buono diventi ottimo. Vicino a Tim, attraverso i suoi lavori e film meravigliosi, e il suo sorriso, e la sua umiltà (benché divo che firma autografi a cretinetti qualsiasi), ho trovato molto di me: dai temi che lo avvolgono e lo turbano (morte, infanzia, innocenza, amore infelice, sogni) vedo ciò che mi interessa nella vita e nell’arte, e che credo sia la giusta via per trovare qualcosa di degno e sensato e anche bello in quest’esperienza che è la vita, che il cinema aggiorna se non addirittura corregge. “Tim, you’re great” gli dico, ricevo un nuovo sorriso e me ne vado. Avanti un altro: vestito da Cappellaio matto, ama Tim per altri motivi, ed è qui, come molti, dalle 5 di mattina, e può anche ritenersi fortunato. È durato solo pochi secondi questo incontro tra noi. Ma dopotutto le grandi emozioni della vita – nascita, orgasmo, gol, bacio, colpo di fulmine, morte – durano solo pochi secondi. Ma valgono tutta la vita. Custodirò questo ricordo di Parigi come una firma sul cuore, altro che su un libro. La mano purtroppo l’ho già lavata.

Altro giorno, 5 marzo. Un’ora di lezione di cinema: perché faccio, perché sono, ormai il mistero di Tim per me è scoperto dopo una stretta di mano e una mostra così introspettiva che quasi spoglia. Spiega la sua passione per i B-movies, l’adorazione per Ed Wood e la sua infanzia schiva a Burbank, di come lo hanno cacciato dalla Disney e come l’hanno ripreso, e come ha conservato genio e dignità senza mai, eccetto forse per il controverso “Alice in Wonderland”, abbassarsi alle leggi del marketing. La tecnica rivoluzionaria della stop-motion (“Nightmare Before Christmas”, “La sposa cadavere”) e la sua cinefilia onnivora, così come i suoi primi corti in Super8 di cui ancora si vergogna, ma che servono a capire, ora che è famoso e grande e il guaio è fatto, a capire la genesi di un mostro sacro. Ma anche risposte ai fan, e a un giovane, nostro (mio e suo), collega francese che gli chiede se ha visto o perso il dvd del suo corto, datogli il giorno prima: “No, non l’ho perso”, risponde, “e lo vedrò appena posso, sicuro. Ho perso solo le chiavi della stanza d’albergo ma lasciamo stare”. Mi dà fiducia. Grande Tim, Parigi, e non solo, ti vuole bene.